Molti cristiani dell’Iraq, derubati, perseguitati e umiliati, resistono alla tentazione di vendicarsi o di fuggire davanti all'avanzata islamista solo grazie alla preghiera e all’ascolto della Parola di Dio. Da Zakho, cittadina nel Kurdistan iracheno, dove sono sfollate numerose famiglie, ci giunge una testimonianza che volentieri riportiamo.
(c.g.) – Molti cristiani dell’Iraq, derubati, perseguitati e umiliati, resistono alla tentazione di vendicarsi o di fuggire davanti all’avanzata islamista solo grazie alla preghiera e all’ascolto della Parola di Dio. Da Zakho, cittadina nel Kurdistan iracheno, dove sono sfollate numerose famiglie, arriva una testimonianza che volentieri riportiamo.
«Le Chiese, le istituzioni internazionali e il governatorato curdo si stanno prodigando per far fronte all’emergenza e la situazione sta migliorando – racconta Filippo Di Mario, un membro del Cammino Neocatecumenale originario di Rimini e da diversi anni in Iraq –; qui intere città e villaggi si sono riversati su altre città e villaggi come greggi in fuga dai lupi. Troviamo famiglie sfollate sparse dovunque: nelle case dei parenti, nei saloni delle chiese, nelle scuole, nelle case in costruzione, sotto gli alberi, nei giardini, sui cigli delle strade, lungo i ruscelli o nel deserto… All’apparenza, le loro condizioni non sono di particolare povertà o disperazione, è gente abituata a “traslocare”. Ma se si va un po’ a fondo, emerge un’infinità di angosce e paure. Qualcuno maledice i musulmani, altri questo o quel Paese straniero… In molti cristiani riscontriamo però anche una forza particolare, dovuta da una parte al sostegno che Dio dà ad ogni profugo, dall’altra nel vedere che il loro sogno, coltivato da sempre, sta per diventare realtà: “In queste condizioni è impossibile vivere in Iraq. Ora potremo finalmente emigrare!”, ci dicono».
Proprio il dissanguamento a causa dell’emigrazione è oggi il rischio più grave che corre la Chiesa irachena: solo pochi giorni fa il patriarca caldeo mons. Louis Raphael I Sako, parlando nella parrocchia di San Giuseppe a Baghdad, diceva: «Se abbandoniamo l’Iraq, saremo tagliati fuori per sempre dalle nostre origini e dalla nostra storia: il nostro futuro è qui, non certo nelle nazioni della diaspora». Come fermare l’esodo? Per dare coraggio a questi cristiani perseguitati ad agosto Papa Francesco ha inviato il cardinal Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, a Baghdad e nel Kurdistan iracheno.
«Un vescovo locale, dopo il passaggio del cardinal Filoni, ci ha chiamato d’urgenza – racconta Filippo – perché organizzassimo incontri con l’annuncio del kerigma (la proclamazione del nucleo essenziale della fede in Cristo Signore – ndr) ai profughi cristiani, per dire che Dio li amava anche in questa situazione. “Questa gente non ha la minima idea del perché le sia successo tutto questo – ci ha detto il vescovo –. È arrabbiata anche con Dio. Perfino le centinaia di famiglie riparate entro i cortili della chiesa, non entrano in chiesa a pregare. Tutti parlano di quando arriverà il visto per l’espatrio o di quando potranno prendere le armi e difendersi…”».
«Grazie a Dio – prosegue Di Mario – tra i profughi abbiamo trovato alcuni preti che erano stati costretti a fuggire dalle loro parrocchie. Con loro abbiamo messo in cantiere una prima riunione in cui annunciare la buona notizia che Gesù Cristo ha già compiuto in noi e proporre il sacramento della confessione, per chiedere perdono dei peccati commessi in questo tempo. All’inizio abbiamo trovato una certa derisione, ma pian piano abbiamo fatto presente che tutta la Scrittura afferma che “il Signore come buon pastore ristora le mie forze e mi porta per il cammino dell’amore”. Insomma, abbiamo finito questo primo incontro a notte inoltrata, perché la gente aveva un bisogno enorme di scaricare i propri fardelli».
Il racconto del riminese continua: «Dopo questa prima esperienza, altri vescovi vicini ci hanno chiesto che venisse fatto un annuncio di speranza anche ai profughi cristiani ospitati nel loro territorio: così dei fratelli iracheni sono andati ad Ankawa (presso la chiesa caldea e presso la chiesa sira). Poi anche a Soleimania, Zakho, Berseve. Con queste missioni Dio sta passando per i campi degli sfollati cercando quei poveri che sanno approfittare della situazione per accogliere Gesù, il Dio con noi. Da coloro che lo accolgono ogni giorno ci arrivano notizie stupende. La gente ringrazia questi nostri fratelli iracheni e benedice Dio per la forte testimonianza che sanno portare in questo momento. Che altrimenti rischierebbe di trasformarsi in un altro tempo di alienazione o di inferno».
«C’è una notizia in particolare che mi piacerebbe arrivasse al cardinal Filoni e, da lui, al Papa – conclude Filippo –: Rolina, Hailina e Angela sono tre giovani irachene di una comunità neocatecumenale, sorelle tra loro. Abitano con i genitori e i fratelli in un villaggio iracheno vicino al confine turco. Quando, a fine luglio, giravano incontrollabili voci che i terroristi dello Stato Islamico avrebbero attraversavano il fiume Tigri piombando sul villaggio, il padre pensò che le tre sorelle dovevano mettersi in salvo passando il confine con la Turchia, come fanno tantissimi cristiani. Lì avrebbero ottenuto lo status di rifugiate e avrebbero poi raggiunto qualche Paese occidentale dove sposarsi e costruire un futuro sicuro. “Se tu senti di andare vai pure, noi rimaniamo quì!”, hanno risposto le tre ragazze al padre. “Ma lo faccio per voi!”, ha replicato lui. “Noi rimaniamo”, hanno ribadito. “Ecco: il cammino neocatecumenale mi ha rovinato le figlie, il figlio e forse anche la moglie visto che non dice niente… ma dove vado senza di voi?”, ha concluso il padre. Così sono rimasti tutti. Vincendo la volontà paterna, condizionata dalla pressione del momento e diffusa come un virus che spinge tutti ad emigrare a testa bassa come pecore senza pastore, hanno potuto rimanere unite alla loro comunità e alla missione che Dio ha loro affidato e affiderà in favore di questo Paese e di questi popoli che hanno tanto bisogno di essere salvati “dal dissolvimento”, come dice il patriarca Sako, amandoli e abbracciandoli concretamente così come sono. Ora il padre di queste tre giovani, che ha una buona attività, è contento di essere rimasto e l’altro ieri ci ha invitati a pranzo, mentre le figlie, con altri fratelli, preparavano le catechesi da portare ogni giorno agli sfollati».