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Voci dall’esodo di Mosul

di Giuseppe Caffulli
1 agosto 2014
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Secondo le organizzazioni umanitarie, sono almeno 10 mila i cristiani che hanno lasciato nelle ultime settimane la Piana di Nivive (l’area nord-orientale nei pressi di Mosul, in Iraq). Proprio in questa zona si sono concentrati gli scontri tra i peshmerga curdi e i militanti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil), che proprio a Mosul hanno insediato il loro autoproclamato califfo. I racconti di alcuni profughi.


Quando Janda, cristiana assira, madre di famiglia, ricorda la sua fuga da Qaraqosh (storica città cristiana irachena posta 32 chilometri a sud-est di Mosul) non può fare a meno di inorridire: «Sopra di noi fischiavano le bombe. Nella mia via non era rimasta anima viva, solo la nostra famiglia». Dall’inizio di giugno i jihadisti avevano iniziato a bloccare le tubature d’acqua che riforniscono Qaraqosh e i villaggi limitrofi. Per avere qualche tanica d’acqua, erano stati fatti arrivare rifornimenti idrici da fuori, pagati a caro prezzo. Ma alla fine anche Janda, come la gran parte delle famiglie cristiane di questa cittadina, è stata costretta a lasciare la propria casa per raggiungere Erbil, dopo un avventuroso viaggio in auto.

Secondo le organizzazioni umanitarie, sono almeno 10 mila i cristiani che hanno lasciato nelle ultime settimane la Piana di Nivive (l’area nord-orientale nei pressi di Mosul). Proprio in questa zona si sono concentrati gli scontri tra i peshmerga curdi e i militanti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil), che proprio a Mosul hanno insediato il loro autoproclamato califfo. La reazione dell’aeronautica irachena nei confronti del neonato Stato islamico ha aggiunto ulteriore preoccupazione al clima di già gravissimo pericolo.

«Eravamo terrorizzati perché si era sparsa la voce che l’Isil decapitasse le persone», racconta Ammar, un altro cristiani di Qaraqosh fuggito ad Erbil con la moglie e i due figli. «Temiamo che capiti anche a noi quello che è capitato ai cristiani in Siria». Non sempre le voci sono controllabili nella loro veridicità, ma tra i cristiani iracheni cominciano a circolare storie di profanazioni di chiese, cimiteri cristiani e conversioni forzate (pena la morte) ad opera dei miliziani dell’Isil. Racconti di barbarie e violenze che alzano a mille il livello della paura per la propria sicurezza.

Dal gennaio scorso si calcola che siano un milione e 200 mila gli sfollati e i profughi appartenenti alle varie minoranze etniche e religiose dell’Iraq: shabak, turcomanni e yazidi. Tuttavia nel mirino dell’Isil sembrano esserci soprattutto i cristiani. Attacchi che hanno ulteriormente peggiorato la pesante diaspora iniziata nel 2003 con l’invasione delle truppe statunitensi e alleate. Dieci anni fa i cristiani in Iraq erano stimati in un milione e 300 mila. Ne sarebbero rimasti oggi non più di 300 mila, vittime predestinate (e indifese) nella perenne lotta tra musulmani sunniti e sciiti; capri espiatori di una violenza settaria sempre alla ricerca di un nemico esterno.

Bashar Matti Warda, arcivescovo caldeo-cattolico di Erbil, non si fa illusioni: «I nostri cristiani sono profondamente scoraggiati e hanno perso ogni speranza per il futuro. Molte tra le nostre famiglie stanno cercando di lasciare ad ogni costo l’Iraq. È un’enorme perdita per noi e per il Paese».

Anche la Chiesa ha molto da perdere, sempre più debole nella capacità di respirare con entrambe i polmoni (quello d’Oriente e quello d’Occidente, come disse Giovanni Paolo II) della sua bimillenaria storia di fede. 

(Twitter: @caffulli)

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