Alla fine, dopo sette settimane di guerra, è arrivato il cessate il fuoco a Gaza. E la domanda più in voga al momento in Medio Oriente è quella su chi abbia vinto o chi abbia perso. Domanda sempre molto discutibile di fronte a tragedie che lasciano dietro di sé un prezzo di sangue altissimo. Mai come in questa guerra tutto si gioca sull'immagine che ciascuno è in grado di dare di sé. Nascondendo le proprie contraddizioni.
Alla fine, dopo sette settimane di guerra, è arrivato il cessate il fuoco a Gaza. E la domanda più in voga al momento in Medio Oriente è quella su chi abbia vinto o chi abbia perso. Domanda sempre molto discutibile di fronte a tragedie che lasciano dietro di sé un prezzo di sangue altissimo.
Il problema – però – è che mai come in questa guerra – priva di obiettivi militari veri (da una parte come dall’altra) e legata solo a tornaconti politici – tutto si gioca sull’immagine che ciascuno è in grado di dare di sé. Nascondendo le proprie contraddizioni. Da questo punto di vista Hamas a prima vista sembra uscirne meglio: due mesi fa era una fazione in piena crisi per l’indebolimento dei propri sponsor politici nella regione; così ha voluto fortemente l’escalation per riacquistare credibilità nell’opinione pubblica palestinese e sembra esserci riuscita. In queste ore si è dunque affrettata a celebrare in «pompa magna» i «risultati» ottenuti attraverso la resistenza a Gaza.
Solo che – come osserva Ron Ben Yishai, nell’analisi di Yediot Ahronot che rilanciamo qui sotto – questi «risultati» non sono altro che il ritorno alle condizioni del cessate il fuoco del 2012. La possibilità vera della fine del blocco di Gaza con un’apertura vera del valico di Rafah al momento resta nelle mani degli egiziani, esattamente come prima: l’unico impegno, per ora, è quello sull’ingresso dei materiali per la ricostruzione. Quanto poi al porto e all’aeroporto di Gaza qualcuno crede davvero che tra un mese inizi un negoziato alla fine del quale Israele darà il via libera a una mossa che cancellerà in un colpo solo otto anni di ferrea politica di isolamento?
La verità è che anche Hamas ormai aveva deciso che il suo obiettivo principale – il rilancio nella società palestinese e l’affiancamento del Qatar (amico) all’Egitto (nemico) nel patronato sulla Striscia – era stato ormai raggiunto. Così il cessate il fuoco rifiutato più volte nelle scorse settimane è stato accettato. Rinviando gli «obiettivi irrinunciabili» a tra un mese; quando nessuno penserà più di ricominciare una guerra per perseguirli.
Dall’altra parte della barricata a uscirne apparentemente con le ossa rotte è Benjamin Netanyahu: i sondaggi certificano un crollo della sua popolarità. E oggi deve fare i conti con le bordate che gli arrivano da destra da Neftali Bennett e Avigdor Lieberman, i due ministri di peso del suo governo che dall’inizio di questa crisi lo stanno sfidando apertamente. A pesare è la vulnerabilità che durante questa guerra Israele ha sperimentato in maniera più forte rispetto al passato. E questo nonostante il potenziale di fuoco mai visto prima riversato in queste settimane su Gaza. Uno dei drammi delle guerre è che ci si abitua facilmente alle immagini di morte e distruzione. Così oggi nessuno degli aspiranti vincitori ricorda il dato citato nell’articolo di Samer Badawi, che proponiamo qui sotto: in questi 50 giorni sono rimasti uccisi sotto le bombe ben 500 bambini, un numero enorme anche solo rapportato ai già tragici bilanci dei precedenti conflitti a Gaza.
In definitiva – dunque – gli elementi che facciano sperare in una svolta veramente duratura per gli abitanti della Striscia sono decisamente pochi. A meno che… Una strada in realtà ci sarebbe e la indica bene l’analista libanese Rami Khouri nel terzo articolo che proponiamo qui sotto. Le carte in tavola cambierebbero se la comunità internazionale cogliesse questo momento, senza aspettare la prossima crisi a Gaza. Si tratterebbe di sancire le condizioni di questo cessate il fuoco con una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che permetta alla comunità internazionale di tornare ad avere un ruolo nella Striscia. Ad esempio mettendoci la faccia come garante a Rafah, per far sì che la fine del blocco non sia solo un risultato tanto propagandistico quanto effimero, ma un beneficio concreto raggiunto con le adeguate garanzie di sicurezza per Israele. È la strada che Gran Bretagna, Francia e Germania in queste settimane hanno fatto balenare e che andrebbe rilanciata ora perché è in questo momento che Israele e Hamas non avrebbero la forza per opporsi. Sarebbe l’unica strada per non trovarsi domani a ricominciare ancora una volta tutto da capo.
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