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Siriani nel limbo egiziano

Anna Clementi, dal Cairo
17 luglio 2014
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Siriani nel limbo egiziano
L'abitazione di una famiglia siriana nel quartiere 6 Ottobre, al Cairo.

L’Italia ti dà i documenti solo se anneghi». Zaher ride divertito mentre racconta questa battuta diventata ormai popolare tra i profughi siriani rifugiati in Egitto. Poi si fa subito serio. «Nessuno di noi vorrebbe partire, sappiamo che andiamo incontro alla morte, ma quale altra possibilità abbiamo?».

Zaher è arrivato in Egitto da più di un anno assieme alla moglie e ai suoi due figli di 3 e 5 anni. In Siria era proprietario di un ristorante nel cuore della vecchia Damasco ed economicamente stava molto bene. Poi è arrivata la guerra. «Eravamo nella nostra casa ad Harasta (una località nella periferia di Damasco – ndr) quando l’aviazione siriana ha iniziato a bombardare. Siamo usciti di corsa, se fossimo rimasti all’interno un minuto in più, non saremmo sopravvissuti. L’intero edificio si è sgretolato davanti ai nostri occhi».

Assieme alla sua famiglia, Zaher ha deciso di lasciare la Siria; si sono imbarcati tutti assieme sul primo volo disponibile per il Cairo. «Non volevamo andare in Libano per i problemi confessionali interni né in Giordania poiché veniva richiesto un visto d’ingresso. La Turchia l’abbiamo scartata perché non parlano arabo e perché la vita è cara». A marzo 2013 sono atterrati all’aeroporto del Cairo, senza documenti regolari, e si sono consegnati alle autorità egiziane. «Sono stati tutti molto gentili e calorosi, la polizia di frontiera ci ha fatto entrare senza problemi e gli egiziani si sono subito dimostrati disponibili e accoglienti».

«Nei primi mesi tutto è stato facile. Nonostante avessimo perso i nostri risparmi e fossimo ancora sconvolti da quanto avevamo vissuto, ci siamo subito ambientati in Egitto anche grazie agli aiuti economici e alimentari che ricevevamo da molte associazioni locali. Sono riuscito a prendere in affitto un piccolo appartamento, ad ottenere la residenza e a iscrivere i miei figli alla scuola materna», continua Zaher.

Clima di accoglienza e tolleranza, ingresso nel Paese senza visto, distribuzione di generi alimentari e di beni di prima necessità, aiuti e solidarietà da parte della popolazione. Questa è la descrizione che fa la maggior parte dei rifugiati siriani presenti al Cairo soprattutto durante la presidenza di Mohamed Morsi.

«Poi, dopo talatin sitta, tutto è cambiato», afferma Zaher. Talatin sitta, ovvero il 30 giugno 2013, è il giorno in cui sono iniziate le manifestazioni di massa che hanno portato alla destituzione del presidente Morsi da parte delle forze armate e l’avvento al potere del presidente della Corte Costituzionale Adli Mansour (a cui è succeduto dopo le elezioni presidenziali del 26 e 27 maggio 2014 il comandante in capo delle Forze armate egiziane al Sisi – ndr). Talatin sitta è una data che per i rifugiati siriani si è trasformata in un vero e proprio spartiacque tra un Egitto aperto ed accogliente ed uno persecutorio e impenetrabile.

Con gli improvvisi cambiamenti della scena politica egiziana, il nuovo esecutivo ha messo in atto dure misure contro i siriani rifugiati in Egitto, come ad esempio l’imposizione di un visto d’ingresso obbligatorio e lo smantellamento di tutte quelle associazioni locali di aiuto che assistevano i profughi e i bisognosi. La situazione si è ulteriormente aggravata dopo il massacro che le forze armate egiziane hanno condotto contro i sostenitori di Morsi a Rabaa Al-Adawiya il 14 agosto 2013, a seguito del quale è stata lanciata una vera e propria campagna antiterrorismo contro gli islamisti e i Fratelli Musulmani. Campagna che ha preso di mira anche i siriani, accusati di appoggiare il deposto presidente Morsi e di essere una delle cause della tragica situazione economica in cui stava precipitando l’Egitto. Molti siriani sono stati rispediti in Siria dopo essere atterrati, senza visto regolare, all’aeroporto del Cairo; altri hanno deciso di lasciare il Paese e di tentare la loro fortuna altrove.

«Dopo Rabaa, il clima in Egitto è cambiato. Ad Alessandria, dove lavoravo come commesso in un negozio di vestiti, l’esercito ha cominciato a mettere posti di blocco sul lungomare. C’erano controlli continui, venivano presi di mira i siriani. Alcuni miei amici sono stati arrestati senza motivo. Avevo paura». Majd, 24 anni, di Homs, ha lasciato l’Egitto e ora è ospite in un centro di accoglienza in Italia. Ha pagato più di 6 mila dollari per intraprendere quello che è noto come «il viaggio della morte». Sei giorni in nave, senza cibo né acqua, in condizioni disumane, su una barca sovraccarica, alla disperata ricerca di raggiungere le coste italiane.

C’è anche chi ha deciso di rimanere in Egitto adattandosi alle mutate condizioni politiche e sociali dell’Egitto post-Morsi. Secondo i dati (aggiornati al 23 giugno 2014) dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur), nel Paese ci sono 138 mila profughi siriani, un dato che si mantiene relativamente costante da quando sono state imposte misure restrittive sull’ingresso dei profughi che, se da un lato, hanno spinto molti siriani a cercare rifugio in altre nazioni (Libano e Turchia), dall’altro hanno fatto sì che quasi la totalità dei siriani presenti in Egitto si registrasse ufficialmente presso l’Acnur. «Dopo la chiusura delle associazioni che ci fornivano aiuti e col clima persecutorio che si respirava l’estate scorsa, l’Acnur è diventato l’unico nostro punto di riferimento», spiega Zaher.

La maggior parte dei rifugiati siriani presenti in Egitto vive nella città del «6 ottobre», a circa 30 chilometri dal Cairo, nota agli egiziani anche col nome di «Piccola Siria» per l’alta concentrazione di profughi siriani che vi abitano, appartenenti soprattutto alla classe media di Damasco e di Homs. Una città che sorge in mezzo al deserto, progettata dal presidente egiziano Anwar Al-Sadat alla fine degli anni Settanta per cercare di risolvere il problema dell’abusivismo edilizio al Cairo. Una città fatta di palazzoni, complessi residenziali, quartieri anonimi e moderni, pensata e progettata per la borghesia egiziana.

Camminiamo per vie deserte, popolate solo da cani randagi, dove persino l’asfalto viene fagocitato dalla sabbia. Zaher ci porta alla scoperta di una Siria fatta di storie tragiche e dolorose.

«Sono uscito di casa in pigiama, non ho fatto in tempo a prendere nulla. In Siria ero proprietario di una fabbrica tessile, avevo 300 dipendenti». Ahmed ci accoglie nella sua casa, grande, moderna, ma che svela le difficoltà economiche che sta affrontando. «La guerra ci ha portato via tutto, amici, parenti, investimenti di una vita. Inizialmente c’erano delle associazioni islamiche che ci aiutavano, ci davano cibo e vestiti, ci pagavano parte dell’affitto. Ma dopo il 30 giugno sono state messe al bando perché venivano finanziate dai Fratelli Musulmani. Ora riceviamo solo gli aiuti dell’Acnur: beni di prima necessità, vestiti e assistenza sanitaria gratuita, ma non ci basta. Ho quattro figli e non riesco a mandarli a scuola. Due di loro, di 14 e di 20 anni, hanno cominciato a lavorare in una fabbrica. Provo vergogna, come padre, come marito, come essere umano».

«Dopo il 30 giugno è cambiato anche l’atteggiamento della gente», racconta Nashwa mentre una delle sue figlie scatta fotografie con un cellulare di ultima generazione. «Ora è diventato più difficile aprire un negozio o un ristorante. Siamo malvisti dagli egiziani e questo è frutto del lavaggio del cervello fatto dai mezzi di comunicazione. Sono aumentati i furti nei nostri confronti, ci sono controlli continui. Vengono nelle case, fanno ispezioni, sopralluoghi, la campagna repressiva in corso contro i Fratelli Musulmani sta colpendo anche noi. Abbiamo paura». Nashwa era direttrice di una scuola elementare nel cuore della Damasco moderna. Da quando è arrivata in Egitto, cucina polpette di carne (kofta) in occasione di matrimoni e ricorrenze speciali. Il marito ha fatto domanda d’asilo in Germania e sta cercando di richiedere il ricongiungimento familiare. Nel frattempo Nashwa si è messa a studiare il tedesco.

«Se l’Egitto e l’Acnur ci abbandonano, l’unica soluzione è rendersi autosufficienti». Mohammad sorride soddisfatto e osserva felice il suo piccolo orto. Cipolle, carote, rape, patate, rucola e persino una pianta di pomodori e un piccolo albero di albicocche, che spuntano dalla sabbia del deserto. In un angolo, un piccolo recinto con quattro galline. Come Ahmed, Mohammad e Nashwa, tanti altri. Bloccati nel limbo egiziano, nostalgici per un passato che non tornerà e spaventati da un futuro senza certezze. Consapevoli però che l’Egitto, nella più terribile delle disgrazie, è oggi la migliore delle soluzioni possibili.

Zaher lo sa bene. «Alcuni dei miei parenti sono in Svezia. Sono partiti dall’Egitto per mare. Hanno pagato più di 5 mila dollari a testa per il viaggio. Oggi continuano a ripetere: se avessero saputo prima a che cosa andavano incontro, non sarebbero partiti nemmeno in cambio di un milione di dollari. Dopo l’esperienza dell’attraversamento in mare, non sono più le stesse persone».

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