Con il Papa, ce lo siamo chiesto in molti in questi giorni. Chi era disposto a scorgere un autentico seme di bene nell’Invocazione per la pace svoltasi con le delegazioni israeliana e palestinese l'8 giugno nei Giardini vaticani si domanda: che ne è di quelle preghiere? La risposta di Francesco e le riflessioni sulla pace dei vescovi di Terra Santa.
(g.s.) – Ce lo siamo chiesto in molti in questi giorni. Chi era disposto a scorgere un autentico seme di bene nell’Invocazione per la pace svoltasi con le delegazioni israeliana e palestinese la sera di Pentecoste nei Giardini vaticani si domanda: che ne è di quelle preghiere? Sono scivolate via come acqua sulla pietra senza lasciare neppure un segno? Semplici suoni gettati in un tramonto romano senza echi?
Anche il Papa domenica 13 luglio, dopo la preghiera dell’Angelus in piazza San Pietro, ha fatto suo l’interrogativo, rispondendo da credente.
«Rivolgo a tutti voi – ha detto Francesco – un accorato appello a continuare a pregare con insistenza per la pace in Terra Santa, alla luce dei tragici eventi degli ultimi giorni. Ho ancora nella memoria il vivo ricordo dell’incontro dell’8 giugno scorso con il patriarca Bartolomeo, il presidente Peres e il presidente Abbas, insieme ai quali abbiamo invocato il dono della pace e ascoltato la chiamata a spezzare la spirale dell’odio e della violenza. Qualcuno potrebbe pensare che tale incontro sia avvenuto invano. Invece no! La preghiera ci aiuta a non lasciarci vincere dal male né rassegnarci a che la violenza e l’odio prendano il sopravvento sul dialogo e la riconciliazione. Esorto le parti interessate e tutti quanti hanno responsabilità politiche a livello locale e internazionale a non risparmiare la preghiera e a non risparmiare alcuno sforzo per far cessare ogni ostilità e conseguire la pace desiderata per il bene di tutti. E invito tutti voi ad unirvi nella preghiera. In silenzio, tutti, preghiamo».
Alla breve preghiera silenziosa il Papa ha fatto seguire questa invocazione: «Ora, Signore, aiutaci Tu! Donaci Tu la pace, insegnaci Tu la pace, guidaci Tu verso la pace. Apri i nostri occhi e i nostri cuori e donaci il coraggio di dire: “mai più la guerra!”; “con la guerra tutto è distrutto!”. Infondi in noi il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace… Rendici disponibili ad ascoltare il grido dei nostri cittadini che ci chiedono di trasformare le nostre armi in strumenti di pace, le nostre paure in fiducia e le nostre tensioni in perdono. Amen».
Facciamo nostro questo atteggiamento di intercessione per la pace, in queste ore drammatiche per israeliani e palestinesi.
Ogni popolo, almeno nelle sue componenti più sane, desidera la pace. Una pace giusta e degna. Mentre le artiglierie impazzano, in Terra Santa c’è molta gente che ragiona e parla di pace: miraggio desiderato!
L’8 luglio – nel giorno in cui a Tel Aviv si svolgeva una conferenza sulla pace promossa dal quotidiano Haaretz con l’intervento di grandi nomi di ogni schieramento e ideologia – ne ha scritto anche la Commissione Giustizia e Pace dell’Assemblea degli ordinari cattolici di Terra Santa in un testo dal titolo: Appello per un cambiamento coraggioso.
Il discorso parte dalle tristi cronache di giugno e luglio e allarga l’orizzonte. L’esordio fa implicito riferimento al rapimento dei tre adolescenti israeliani (Gilad Sha’er, Naftali Frankel e Eyal Yifrah), sequestrati ad Hebron il 12 giugno e trovati morti il 30, e all’omicidio per rappresaglia di un quindicenne palestinese (Mohammed Abou Khdeir) a Gerusalemme Est: «In Israele e Palestina riecheggia il grido delle madri e dei padri, dei fratelli e delle sorelle, dei cari delle giovani vittime dell’ultimo ciclo di violenza che affligge questa terra. Alcuni dei loro volti sono noti a tutti perché i media hanno ampiamente raccontato i dettagli delle loro vite, intervistando i familiari e quasi riportandoli in vita nella nostra immaginazione. Altri – ben più numerosi – sono mere statistiche, senza volto e senza nome. Anche la copertura selettiva da parte dei media, con il lutto e il ricordo che essa genera fa parte di questo ciclo di violenza».
La riflessione continua: «La nostra speranza di porre fine al ciclo della violenza è fatta a pezzi dal linguaggio irresponsabile della punizione collettiva e della vendetta, che alimenta la violenza e soffoca l’emergere di qualsiasi alternativa. Molti in ruoli di potere e di responsabilità politica restano trincerati (su queste posizioni), non solo indisponibili ad avviare qualsiasi reale e significativo processo di dialogo, ma anche intenti a gettare benzina sul fuoco con parole e azioni che alimentano il conflitto».
«Il linguaggio violento che nelle strade di Israele chiede vendetta è alimentato da atteggiamenti ed espressioni di una leadership che continua a incoraggiare un discorso che promuove i diritti di un gruppo soltanto e l’occupazione con tutte le sue disastrose conseguenze. Vengono costruiti insediamenti, confiscate terre, separate famiglie, tratte in arresto o persino uccise le persone più care. I leader dell’occupazione sembrano credere che essa possa vincere schiacciando la volontà di un popolo di conseguire libertà e dignità. Sembrano credere che la loro determinazione possa in definitiva ridurre al silenzio ogni opposizione e trasformare il torto in ragione».
Sull’altro versante «il linguaggio della strada palestinese che reclama vendetta è nutrito dagli atteggiamenti e le espressioni di coloro che si sentono privati d’ogni speranza di raggiungere una giusta soluzione al conflitto attraverso i negoziati. Guadagnano sostegno popolare, sfruttando questa situazione senza speranza, coloro che puntano a costruire una società totalitaria a monolitica in cui non c’è spazio per alcuna differenza o difformità».
«Quel che sta accadendo a Gaza – osserva Giustizia e Pace – non è che l’illustrazione del circolo vizioso della violenza privo di qualunque visione alternativa per il futuro. Spezzare questo ciclo di violenza è un dovere per tutti, oppressori e oppressi, vittime e carnefici. Per perseguire questo obiettivo tutti dobbiamo riconoscere nell’altro un fratello o una sorella da amare e custodire, piuttosto che un nemico da odiare ed eliminare».
«Abbiamo bisogno – prosegue il testo – di un cambiamento radicale. Israeliani e palestinesi insieme devono scrollarsi di dosso gli atteggiamenti negativi di odio e sfiducia reciproca. Siamo chiamati ad educare le giovani generazioni in un nuovo spirito che sfidi le mentalità esistenti di oppressione e discriminazione. Dobbiamo sbarazzarci di leadership che alimentano il ciclo della violenza. Dobbiamo individuare e sostenere leader determinati a lavorare per la pace e la giustizia, riconoscendo che Dio ha piantato qui tre religioni – giudaismo, cristianesimo e Islam – e due popoli, l’israeliano e il palestinese. Dobbiamo trovare leader dotati di una chiara visione e coraggiosi al punto di far fronte all’urgenza della situazione attuale e prendere le difficili decisioni che sono necessarie. Leader che, se necessario, siano pronti a sacrificare la propria carriera politica in vista di una pace giusta e duratura».