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Miko Peled: «Gaza delegittima Israele»

Chiara Cruciati
23 luglio 2014
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Miko Peled: «Gaza delegittima Israele»
Miko Peled.

Mentre Gaza vive l’ennesimo massacro sono in tanti ad alzare la voce. Dal contesto ebraico parla Miko Peled. Cittadino israeliano, nato a Gerusalemme 53 anni fa e oggi residente negli Stati Uniti, da anni è impegnato come attivista pro-palestinese. Dice: «Non c'è nulla di nuovo: Gaza viene bombardata dagli anni Cinquanta. Prima la giustificazione era un’altra, oggi il nemico è Hamas».


(Betlemme) – Le notti palestinesi sembrano non passare mai. Ad unire i Territori Occupati, Gaza e Cisgiordania, è il dolore. A Gaza, a dettare lo scorrere del tempo è l’angoscia di chi non dorme per la paura dei bombardamenti. In Cisgiordania, è l’impotenza che si traduce negli scontri notturni contro le forze militari israeliane.

Intorno alle 22, da settimane, non sono le voci festanti delle famiglie né il suono delle posate sui piatti a far da palcoscenico alla notte che arriva, rumori tipici delle sere di Ramadan, quando il sole tramonta e si rompe il digiuno. Al loro posto gli scoppi delle bombe sonore e il fischio delle pallottole sparate dai soldati israeliani: «Scendiamo in piazza tutte le notti – ci dice Issa’a, del campo profughi di Dheisheh – Per dimostrare solidarietà ai nostri fratelli gazawi, per dire basta al vergognoso coordinamento alla sicurezza tra l’Autorità Palestinese e Israele. Qua a bloccare le manifestazioni sono i poliziotti palestinesi».

Un centinaio di chilometri a Ovest, Gaza vive l’ennesimo massacro. Sono in tanti, però ad alzare la voce. Le più forti dovrebbero giungere proprio dalla società israeliana e tra queste c’è quella di Miko Peled. Cittadino israeliano, nato a Gerusalemme 53 anni fa e oggi residente negli Stati Uniti, da anni è impegnato come attivista pro-palestinese. Un percorso complesso il suo: figlio di un generale dell’esercito israeliano, ha raccontato nel libro The General’s Son. Journey of an Israeli in Palestine cosa significhi crescere in una famiglia sionista molto influente all’interno della società israeliana. Il nonno, Avraham Katsnelson, fu uno dei firmatari della Dichiarazione di Indipendenza dello Stato di Israele nel 1948, suo padre Matti ha combattuto nel 1948 nelle milizie sioniste e poi di nuovo nel 1967, durante l’occupazione della Cisgiordania.

Abbiamo incontrato Miko Peled a due settimane dall’inizio dell’operazione Barriera protettiva, lanciata contro la Striscia di Gaza, per rispondere al lancio di missili di Hamas verso obiettivi israeliani. Il bilancio ad oggi è quanto mai drammatico: nella Striscia si contano oltre 600 i morti, 4 mila feriti, centinaia le case distrutte, decine le strutture pubbliche, le scuole, le moschee danneggiate, oltre 100 mila sfollati interni. La risposta di Hamas ha provocato vittime anche in campo israeliano: dall’inizio dei combattimenti sono rimasti uccisi due civili e una trentina di militari israeliani che prendevano parte alle operazioni.

Perché Israele ha avviato oggi un’offensiva militare contro la Striscia? Quali gli obiettivi?
Stiamo vivendo un periodo particolarmente duro: la propaganda del governo ha raggiunto livelli altissimi e ha attecchito. Nelle tivù israeliane non passa una singola immagine dei bombardamenti su Gaza e il 99 per cento dei cittadini sostiene le azioni del premier Netanyahu. Quello che manca però è il contesto storico. L’attacco contro la Striscia non è nulla di nuovo: Gaza viene bombardata dagli anni Cinquanta. Prima la giustificazione era un’altra, oggi il nemico è Hamas. Eppure è Israele a essere stato creato su un progetto di colonizzazione ed espulsione forzata della popolazione indigena, iniziato nel 1948 con la Nakba (la cacciata di 800 mila palestinesi, tre quarti dei residenti dell’epoca, da parte delle milizie sioniste – ndr). Ecco, quest’offensiva rientra nello stesso progetto.

In che modo Gaza può essere considerata una minaccia alla sicurezza dello Stato di Israele?
Gaza è sì una minaccia per Israele, ma non per la sua sicurezza. Gaza è un popolo di rifugiati, eppure Israele richiama 40 mila riservisti e circonda il confine con centinaia di veicoli militari. Perché? Contro chi deve combattere? Deve combattere contro un popolo che minaccia la legittimità stessa dello Stato di Israele. Gaza rappresenta tutto ciò che può delegittimare Israele: con le sue migliaia di rifugiati pone la domanda a cui Israele non vuole rispondere, quella del diritto al ritorno. Gaza è una minaccia perché delegittima l’immagine di democrazia che Israele cerca di dare di sé nel mondo.
Tutto rientra nella narrativa israeliana: quello sionista è un progetto colonizzatore, un tentativo ancora non del tutto riuscito per due motivi. Primo, la stragrande maggioranza degli ebrei del mondo non vive in Israele e in gran parte non appoggia la creazione di uno Stato per soli ebrei. Secondo, nel territorio della Palestina storica vivono oggi circa 12 milioni di persone: di queste appena 6 milioni sono ebree, secondo i dati dell’Ufficio di statistica israeliano.

Qual è il suo giudizio in merito alle azioni compiute da Hamas e dal suo braccio armato, le Brigate Al Qassam?
Israele spiega l’attuale operazione, come le precedenti, con la necessità di fermare il lancio di razzi da Gaza, da parte delle milizie armate palestinesi. La risposta di Hamas è un atto di resistenza armata. È volta a creare problemi ad Israele ed è frutto dell’oppressione e il blocco della Striscia. Non ci sarebbe lancio di razzi se la popolazione gazawi fosse libera: i missili sono il prodotto dell’occupazione. Possono essere giudicati negativamente, ma sono solo il frutto delle politiche israeliane.

Suo padre è stato un importante generale dell’esercito. Cosa ha rappresentato la sua figura per la sua formazione attuale?
Mio padre ha combattuto nel 1948 ed è stato ai vertici dell’esercito nel 1967 quando Israele occupò Gerusalemme Est, Cisgiordania, Gaza, Golan siriano, Sinai. Seppure un sionista della prima ora, capì subito l’errore che Israele stava compiendo. Già nel 1967 presentò un’inchiesta sui crimini compiuti dalle truppe israeliane e condannò l’occupazione. Era convinto che quello fosse il momento di risolvere la questione palestinese riconoscendo uno Stato sovrano alla controparte. Altrimenti, diceva, Israele diverrà una forza occupante a tempo indeterminato, sarà costretto ad affrontare per decenni la resistenza palestinese e alla fine dovrà comunque cedere alla formazione di uno Stato binazionale. Ovviamente, non la spuntò: subito dopo la guerra dei Sei Giorni, le autorità israeliane avviarono la colonizzazione selvaggia dei Territori Occupati.
E gli anni a seguire hanno dimostrato chiaramente che Israele non vuole la pace. Arafat sarebbe stato il migliore dei partner: con Oslo accettò di dare a Israele l’80 per cento della Palestina storica e di non discutere del diritto al ritorno pur di ottenere il minimo, uno Stato di Palestina a Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. A Israele non è bastato.

L’ultimo tentativo di negoziato tra Israele e Palestina è fallito sul nascere. Quali sono i fattori che potrebbero spingere verso la pace?
Quello in corso non è un negoziato tra due Stati, due popoli, due eserciti. C’è uno Stato solo, Israele, che controlla entrambi i popoli. Eppure sono certo che il giorno in cui la società israeliana sarà costretta ad accettare uno Stato binazionale, in cui vivano in uguaglianza e democrazia israeliani e palestinesi, si mangerà le mani per non averlo fatto prima. Israele ha solo da guadagnare dalla pace. Ma, come sempre accade, non sarà un popolo privilegiato a cedere volontariamente i propri privilegi. Per questo è fondamentale la pressione internazionale, come accadde per il Sud Africa dell’apartheid. E sarà più facile: i popoli israeliano e palestinese sono entrambi altamente educati, il 95 per cento dei bambini palestinesi va a scuola a differenza dei coetanei neri sudafricani negli anni Novanta; quella palestinese è una società laica e strutturata.

Lei è molto attivo nella campagna globale per il boicottaggio di Israele. Ritiene che tali strumenti siano quelli giusti per fare pressione sullo Stato ebraico?
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un incremento notevole della sensibilità delle società civili internazionali. Io vivo negli Stati Uniti e ho visto un salto di qualità inimmaginabile: sempre più Chiese, campus, gruppi di giovani, associazioni ebraiche aderiscono alla campagna di boicottaggio. Lo fanno perché consapevoli che la lotta palestinese è lotta di tutti, anche del popolo israeliano. È una lotta per la giustizia, contro l’apartheid che andrebbe considerata eroica. È una lotta che, quando sarà vinta, non libererà dall’oppressione solo i palestinesi, ma anche gli israeliani.

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