«Hamas può ferirci, ucciderci e mutilarci, ma non può distruggerci. Quello che può disintegrare la società israeliana e lo sta già facendo sono il razzismo, l’apartheid in Cisgiordania, gli omicidi di civili a Gaza...». Non usa mezzi termini l’attivista Leah Shakdiel per criticare «il militarismo e fascismo» che hanno preso piede nella classe politica israeliana.
«Hamas può ferirci, ucciderci e mutilarci, ma non può distruggerci. Quello che può disintegrare la società israeliana e lo sta già facendo sono il razzismo, l’apartheid in Cisgiordania, gli omicidi di civili a Gaza: questi sono i fattori che possono distruggerci e pertanto sono molto più pericolosi». Non usa mezzi termini l’attivista Leah Shakdiel per criticare «il militarismo e fascismo» che hanno preso piede nella classe politica israeliana.
Laburista ed ebrea ortodossa, sionista e militante per i diritti dei palestinesi, Leah Shakdiel ha mostrato agli israeliani la forza della sua personalità fin da quando, nel 1988, dopo una durissima battaglia legale, divenne la prima donna ammessa in un Consiglio religioso municipale nello Stato d’Israele. Saggista e docente di pensiero ebraico in numerosi istituti, nel 1975 scelse di andare a vivere a Yeruham, un villaggio in costruzione nel deserto del Neghev, mentre molti suoi coetanei si trasferivano in Cisgiordania: «A quell’epoca c’era una pressione fortissima negli ambienti religiosi per andare ad occupare i Territori. Per me era impensabile. Oggi credo che quella scelta di esprimere il nesso tra ebraismo, sionismo e giustizia sociale in modo antitetico rispetto ai coloni sia stata la decisione più importante della mia vita». A Yeruham ha iniziato a lottare per i diritti dei beduini, delle donne, dei palestinesi, e da alcuni anni lo fa anche attraverso Machsom Watch, l’associazione umanitaria fondata da israeliani che combattono l’occupazione della Cisgiordania dalle garitte dei check point, da dove vigilano su come i soldati israeliani controllano chi si sposta nei Territori. È urgente, dice in questa intervista, disinnescare l’escalation dell’odio: «Israele trae profitto dal conflitto e teme la realtà del post-conflitto».
Professoressa Shakdiel, come guarda all’operazione in corso a Gaza?
C’è da dire che fin dal disimpegno di Israele dalla Striscia, nel 2005, i palestinesi di Gaza hanno perso l’occasione di usare per lo sviluppo la gran quantità di denaro che hanno ricevuto, e al contrario sono caduti nelle mani di un governo che investe sull’attaccare Israele. Detto ciò, posso ora concentrarmi su ciò che la mia parte ha fatto e avrebbe dovuto fare. Israele ha mantenuto Gaza sotto un assedio economico; Israele ha rifiutato sistematicamente di andare oltre i gesti e la retorica anti-israeliana e talvolta anche antisemita di Hamas e di includere il movimento in negoziati finalizzati alla pace con la Palestina. Israele ha svilito un milione e 800 mila anime alla personificazione del diavolo, Israele ha sorvolato sul semplice fatto che i palestinesi che sostengono Hamas e gli altri palestinesi sono concittadini e correligionari e sono naturalmente uniti. Israele ha contribuito all’escalation dell’odio, specialmente dal rapimento e assassinio dei tre adolescenti (israeliani) di Hebron (il 12 giugno scorso – ndr) perché trae profitto dal conflitto e teme la realtà del post-conflitto. Israele celebra la sua «unità» intorno ad eventi catastrofici come gli attentati terroristici e le guerre con funerali per i suoi coraggiosi soldati, e non investe sulla coesione della vita democratica, con la discordia che può essere contenuta e la tensione verso diritti uguali per persone diverse che fanno spazio l’una all’altra. Hamas può ferirci, uccidere e mutilare, può demolire e spaventare, ma non può distruggerci. Vi sono invece altri fattori che possono distruggerci e lo faranno, e pertanto sono molto più pericolosi. Mi riferisco alla disintegrazione della società israeliana con il razzismo e l’apartheid in Cisgiordania e con l’uccisione sproporzionata di civili nel corso di operazioni di sicurezza sul confine di Gaza.
Quali saranno a suo avviso le ricadute di questa guerra su tutti quei membri della società civile israeliani e palestinesi, come lei, inseriti in gruppi e associazioni comuni e che cercano di vivere insieme?
Abbiamo mantenuto i nostri contatti malgrado tutto. A Yeruham come in altri luoghi abbiamo organizzato un evento congiunto con i nostri vicini beduini alla conclusione del giorno ebraico di digiuno del 17 di Tammuz (lo scorso 15 luglio – ndr), che quest’anno è capitato a metà del Ramadan. Per chi partecipa da molti anni a questi incontri, c’era da aspettarsi l’asimmetria: noi ebrei che parlavamo del nostro disgusto per il razzismo di molti ebrei israeliani in questi giorni, mentre i beduini parlavano di ingiustizie concrete, nel caso specifico della mancanza di protezione anti-missile per la diaspora dei beduini nel deserto del Neghev. Ma un evento del genere stavolta ha attratto anche dei nuovi gruppi, che erano scioccati di fronte a questa discrepanza e si sono sentiti travolti da questo doppio compito, di affrontare non solo temi del dibattito pubblico, ma anche argomenti di giustizia distributiva e di discriminazione.
Cos’è andato storto in questi ultimi vent’anni nel dialogo fra israeliani e palestinesi? Come si è arrivati al rifiuto del dialogo e al non riconoscimento tra le due leadership?
Israele soffre di tre malattie contemporaneamente. Primo: la popolarità di versioni razziste ed etnocentriche di tradizioni nazionali e religiose (sia ebraiche che arabe musulmane). Secondo: il consolidamento di una mentalità da vittime – post-tramautica se si vuole – come la maggiore ragion d’essere di filosofie nazionali, che sfociano in un bisogno insaziabile di potere fisico, militarismo e perfino fascismo. Anche qui, entrambe le parti mostrano la stessa malattia: gli ebrei fanno dipendere la loro identità dalla Shoah e dall’antisemitismo (incidenti antisemiti in Europa vengono qui riportati quasi con la soddisfazione della vittoria) e i palestinesi si aggrappano alla Naqba e all’Occupazione come gli unici contenuti della loro identità. Terzo: l’idolo dell’economia capitalista con tutte le sue ingiustizie, come l’unica aria che possiamo respirare e sulla quale non possiamo fare nulla. Questi tre problemi si rinforzano l’un l’altro. Tutti e tre condizionano un carattere nazionale di rigido egotismo e sordità rispetto all’altro. Io sono convinta che gli israeliani umanisti come me debbano lottare su tutti e tre i fronti contemporaneamente: insegnare una versione umanistica dell’ebraismo e dell’Islam, del sionismo e del nazionalismo palestinese; portare le persone non religiose a lavorare sulla loro identità culturale collettiva, ben lontano da vittorie e sconfitte in campi di battaglia e cimiteri; e fermare l’erosione dello Stato sociale affinché possa prevalere un contratto sociale di solidarietà e sobrietà economica.
Lei è andata a vivere a Yeruham per affermare un modo diverso di essere «un’ebrea ortodossa e sionista» rispetto al modello affermato dai coloni che hanno occupato i Territori palestinesi. Perché definisce la scelta di Yeruham «la decisione più importante della sua vita»?
Ho adottato lo slogan «pensa globalmente, agisci localmente». L’etica della giustizia deve essere valida globalmente, e compatibile con altre applicazioni della stessa etica in Italia o in India. Ma è importante che essa funzioni su una dimensione a misura d’uomo, che sia gestibile a livello locale. Il personale è politico: dove vivo, cosa compro, come cresco i miei figli, che mestiere faccio, come reagisco al disagio del mio vicino di casa, agli improperi razzisti sull’autobus, al sessismo nei media, etc. All’interno di Machsom Watch visito regolarmente l’area di Hebron meridionale, ma sono anche attiva con altri abitanti di Yeruham in un gruppo chiamato Mirkam Azori («Tessuto regionale»), che sostiene con successo gli sforzi dei nostri vicini beduini di trasformare il loro villaggio di Rahma in una comunità riconosciuta che benefici di investimenti governativi. Sono presente anche nel consiglio di Masslan, un centro contro le violenze sulle donne a Be’er Sheva, ed un recente scandalo di abusi sessuali che ha coinvolto un religioso della nostra sinagoga mi ha spinto a fare ricerca nella legge ebraica e in quella giuridica a proposito del dovere di testimoniare per chi patisce un crimine. Spero di fare qualcosa in questo campo.
Negli ultimi anni lei ha scritto sulla «necessità di creare nuove forme di essere ebrei e sionisti come popolo sovrano», che ora ha uno Stato. Come è possibile arrivare a questo nuovo concetto di cittadinanza condivisa, inclusiva delle minoranze non ebraiche, considerate la crescita della destra e del nazionalismo in Israele?
Non possiamo permetterci di mollare. Leggere il quotidiano Haaretz ogni giorno mi aiuta a rimanere in contatto con giornalisti, editorialisti e politologi che non mollano. Parlo pubblicamente ad ogni occasione e mi rifiuto di rifugiarmi in una specie di «esilio interno». Insegno a leggere con prospettive critiche le fonti ebraiche così come i principi della vita democratica. Dico pane al pane e vino al vino quando si tratta di esprimere le mie opinioni, e do del fascista a Naftali Bennet anche se la maggior parte della mia famiglia allargata e compagni di sinagoga votano per lui. Spiego ai giovani di evitare di fare il servizio militare nel K’fir, la forza di terra che è stata creata per governare la Cisgiordania (che è distinta da altre forze di fanteria concepite per difendere propriamente lo Stato di Israele), e dico a tutti che votando Yesh Atid (il partito laico centrista fondato nel 2012 dall’ex giornalista televisivo Yair Lapid – ndr) di fatto consegnano Israele in mano ad una amministrazione che probabilmente non perseguirà i nostri obiettivi principali. Infine, sono orgogliosa di essere un membro di organizzazioni della società civile come Rabbis for Human Rights, B’Tselem e Tag Meir, la coalizione istituita dal dottor Gadi Gvaryahu per contrastare gli incidenti anti-arabi in Israele, che attualmente svolge il lavoro della vecchia associazione Oz ve Shalom nella quale entrai negli anni Settanta.