Con la decisione del governo israeliano di dare il via oggi all'invasione di terra, Gaza sprofonda sempre di più nel baratro. Siamo ormai nel pieno di un conflitto a tutto campo, al quale si è arrivati quasi per inerzia, nell'illusione che un negoziato di pace possa fallire come se nulla fosse. Per noi è importante raccontare le vicende dei deboli che, come sempre, pagano il prezzo più alto delle guerre. Ecco la storia di Maram Alwakili.
Con la decisione del governo israeliano di dare il via oggi all’invasione di terra, Gaza sprofonda sempre di più nel baratro. Siamo ormai nel pieno di un conflitto a tutto campo, al quale – nell’arco di un paio settimane – si è arrivati quasi per inerzia, denunciando drammaticamente l’assenza sulla scena del Medio Oriente di mediatori credibili. Le premesse di questa guerra – infatti – c’erano tutte già ben prima del tragico episodio del rapimento e dell’uccisione di Eyal, Gilad e Naftali, da cui è scaturita la catena incontrollata di eventi che ormai tutti conosciamo. Questo conflitto è figlio dell’illusione che un negoziato di pace possa fallire come se nulla fosse. Dimostrazione che l’esperienza tragica di Camp David 2000 non ha insegnato proprio nulla a questo angolo del mondo.
Ma le analisi di fronte alle armi e al drammatico computo dei morti lasciano sempre il tempo che trovano. E allora diventa molto più importante raccontare che cos’è davvero questo conflitto. In particolare raccontare quelle storie che rivelano come a pagare il prezzo di questa e di tutte le altre guerre siano sempre i più deboli. C’è una vicenda che in questi giorni mi ha colpito molto ed è la storia di una bambina, Maram Alwakili, 11 anni. Anche lei è una vittima di questo conflitto, anche se grazie al cielo le ferite che ha riportato non sono state mortali. Ma di lei non sono girate foto sui social network, della sua storia si è parlato pochissimo. Perché si tratta di una vicenda scomoda per tutti. Maram è infatti una bambina beduina colpita da un razzo palestinese sparato da Gaza e caduto sul suo villaggio, nell’area di Be’er Sheva.
Dunque una bambina vittima non dei raid israeliani ma dei razzi palestinesi che una vulgata un po’ troppo compiacente definisce come «innocui»: Maram è finita in coma e davvero non era scontato che si risvegliasse. Dunque la bambina beduina è una vittima politicamente scorretta per chi si schiera «senza se e senza ma» dalla parte palestinese. Eppure c’è lo stesso un «ma» che la rende altrettanto scomoda anche per chi è filo israeliano. Perché viene naturale porsi una domanda: è proprio un caso che l’unica bambina finora ferita in Israele dai razzi palestinesi sia beduina? La risposta è decisamente no. Se Maram è stata colpita è perché anche negli efficientissimi piani di sicurezza israeliani per difendersi dalla minaccia dei missili le comunità beduine semplicemente non esistono.
Lo spiega bene l’articolo di Haaretz che rilanciamo qui sotto: l’Iron Dome, il sistema anti-missile, non entra in azione sempre ma è posizionato per intercettare i razzi che possono finire su aree abitate. Le stesse zone dove è presente anche l’altro fondamentale presidio di sicurezza: i rifugi. Se invece il razzo palestinese si dirige altrove è lasciato cadere in quelle che si definiscono come «aree aperte», cioè disabitate. C’è, però, un problema non indifferente: come sa chi segue questa rubrica nel Neghev è in corso da decenni un braccio di ferro sui villaggi delle comunità beduine, che non sono riconosciuti dai piani regolatori israeliani. Per non concedere loro alcun diritto sulla terra le autorità fanno finta che non esistano. Oppure stendono piani che mirano a «concentrare» la loro presenza in alcune città, di fatto snaturando lo stile di vita di queste comunità presenti qui da secoli.
Tutto questo – applicato alla vicenda della guerra di oggi – significa una cosa molto semplice: nelle «aree aperte» in realtà vivono decine di migliaia di persone, per le quali non è stata adottata alcuna misura di difesa. Ecco perché il villaggio di Maram è stato colpito. E Hamas ha conseguito così il «brillante» risultato di aggiungere anche la propria firma alle sofferenze di questa gente.
È una storia che rivela quanto, da qualsiasi parte lo si guardi, questo conflitto sia ingiusto. E fa il paio con un’altra vicenda paradossale raccontata da al Monitor: quella degli egiziani che vivono a Rafah, cioè in Egitto, però troppo vicino al confine con la Striscia di Gaza. Anche loro si trovano a subire i danni dei raid aerei israeliani. Vicini di casa di una guerra. Trascinati dalla follia altrui in una tragedia che non guarda più in faccia nessuno.
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Clicca qui per leggere su Al Monitor la storia sulle case egiziane danneggiate