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Quelle spose a tempo determinato che l’Egitto non vuole vedere

di Elisa Ferrero
27 maggio 2014
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Il fenomeno, purtroppo, è diffuso, anche se parlarne pubblicamente è spesso ancora tabù. Ricchi uomini del Golfo residenti in Egitto per un certo periodo, per affari o altre ragioni, si comprano una sposa egiziana per qualche giorno, o qualche settimana, scegliendo fra la miriade di ragazze indigenti. Dopo il matrimonio, di solito, gli uomini spariscono tornando nei loro Paesi, dove spesso hanno già un’altra famiglia. Le storie di queste donne ora sono raccontate in un film.


Sukkar barra («Zucchero a parte») è l’ultimo film documentario di Basel Ramsis, regista egiziano quarantenne che vive fra Madrid e Il Cairo, e che ha anche prodotto e girato il film con le sue mani. Il documentario – filmato nei villaggi di el-Hawamdeya, el-Azazeya e Abul Nomros, nel sud della provincia di Giza, fra il 29 giugno e il 7 luglio 2013 (proprio i giorni delle manifestazioni di massa che portarono alla destituzione del presidente Mohammed Morsi) – è già stato proiettato durante alcuni festival spagnoli. In Egitto, invece, sta incontrando non poche difficoltà, a causa del tema sensibile che affronta: i matrimoni illegali a tempo determinato.

Il fenomeno, purtroppo, è diffuso, anche se parlarne pubblicamente è spesso ancora tabù. Ricchi uomini del Golfo residenti in Egitto per un certo periodo, per affari o altre ragioni, si comprano una sposa egiziana per qualche giorno, o qualche settimana, scegliendo fra la miriade di ragazze indigenti dei villaggi, o dei quartieri urbani poveri, che si sentono costrette a vendersi per miseria e fame, talvolta su pressione della famiglia. Dopo il matrimonio, di solito, gli uomini spariscono tornando nei loro Paesi, dove spesso hanno già un’altra famiglia. A volte portano con sé le spose egiziane, che si ritrovano, tuttavia, a subire pesanti angherie da parte dei mariti, delle co-mogli e delle suocere. E quasi immancabilmente ritornano a casa in Egitto, divorziate o no, senza nulla in mano e con il peso della condanna sociale addosso. A volte nascono anche dei bambini, il cui riconoscimento legale è difficile, con tutte le conseguenze del caso.

Il film di Basel Ramsis racconta, per la prima volta, queste storie dolorose, raccogliendo le testimonianze di un gruppo di donne che le hanno vissute, fra lacrime e risate. Perché la cosa più bella di questo documentario è la sua capacità di penetrare nella realtà amara di queste donne, mostrando al tempo stesso la loro grande forza e voglia di vivere. Nehmedo, Hanan, Umm Usa, Mervat, Shaymaa, Warda e altre donne senza nome, parlano delle loro durissime vicende davanti alle quali è impossibile restare impassibili, vicende di miseria e di violenza. Eppure il loro sorriso luminoso comunica speranza.

Umm Usa, delusa da Morsi, per il quale aveva votato sperando che un uomo di Dio come lui avrebbe aiutato i poveri, descrive bene la miseria in cui vive. Dice di vendersi qualsiasi cosa, persino le figlie, pur di raccattare qualcosa da mangiare. Con un’ernia che le impedisce di continuare a lavorare come serva e un marito malato, non ha altre soluzioni. Shaymaa racconta del suo matrimonio con un saudita durato una sola settimana, dopo la quale l’uomo l’ha divorziata per telefono dal suo Paese d’origine. «Ecco cosa ti fa la povertà», commenta. Hanan, invece, figlia di un padre con tre mogli che non dà un soldo né a lei né alla madre, e la detesta al punto da tentare di ucciderla, sogna di sposare un arabo del Golfo e di lasciare l’Egitto per sempre. Perché, come afferma Mervat, gli arabi del Golfo sono più gentili degli egiziani, almeno parlano e chiacchierano con le spose che comprano. Sullo sfondo, intanto, scorrono le notizie dalla capitale, non molto lontana in termini di distanza, ma così distante dal mondo di queste donne.

Alla fine, a vincere sono il sorriso, la malizia e il senso dell’umorismo di Nehmedo, venditrice di rucola sposatasi tre volte: la prima con un saudita, che si è rifiutata di seguire nel suo Paese; la seconda con un uomo violento che le ha dato varie figlie, che lei ha voluto tenere con sé anche dopo il terzo matrimonio, lavorando duro per mantenerle.

Un tema come questo, tuttavia, pare ancora troppo scabroso in Egitto. Il documentario, che doveva essere in gara al festival del cinema di Ismailiyya, dopo aver ottenuto il numero più alto di voti da parte della commissione incaricata di selezionare i film in concorso, è stato invece destinato alla proiezione in una sezione marginale del festival, lontano dall’attenzione del pubblico e dei critici. Il regista ha definito questa mossa come un tentativo di «uccidere il film» senza incorrere nell’accusa di censura. Il documentario, però, intanto ha fatto parlare di sé, sollevando un velo di omertà su un problema sociale che molti preferirebbero non vedere.

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