Il campo di Zaatari, nel nord della Giordania, oggi accoglie 90 mila profughi siriani. È aperto dal luglio del 2012, dopo il fallimento dei primi colloqui di pace per la Siria. In venti mesi si è gonfiato all’inverosimile di persone e di problemi. Oggi sta cambiando pelle: da struttura provvisoria si tramuta in insediamento a lungo termine. Tra mille tensioni.
(Amman) – Un morto, decine di feriti, tende date alle fiamme: sabato 5 aprile nel campo profughi di Zaatari, nella Giordania settentrionale, è scoppiata una rivolta sanguinosa. La protesta si è innescata per un fatto all’apparenza banale (il fermo di tre famiglie che tentavano di allontanarsi senza permesso). Il suo esito tragico, però, è la prova che la Giordania non riesce più a sopportare le conseguenze, in fatto di profughi, della guerra siriana.
Il campo di Zaatari oggi accoglie 90 mila profughi. Viene aperto nel luglio del 2012, dopo il fallimento dei primi colloqui di pace per la Siria (denominati Ginevra 1). In venti mesi – e due rigidi inverni passati sotto le tende -, si è gonfiato all’inverosimile di persone e di problemi. A febbraio, con il fallimento della seconda fase dei colloqui di pace (Ginevra 2), è apparso chiaro a tutti che la guerra sarebbe continuata a lungo, forse per anni. Così la prospettiva di smantellare il campo è tramontata. E, per lo stesso motivo, Zaatari ha iniziato una «metamorfosi»: da campo profughi si sta trasformando in una città; precisamente, una città di siriani che vorrebbero tornare a casa (ma non possono), ficcata in una terra – la Giordania – che è obbligata ad accoglierli (ma ci non riesce più). Un pasticcio.
Come molte città, Zaatari ha le sue «mura»: un lungo argine di terra, alto due metri, che ne segue il perimetro. Qui, a intervalli regolari, si trova una postazione militare: mezzi blindati, con il mitragliatore puntato contro la distesa sterminata delle tende. Deterrente usato per scoraggiare i rifugiati ad allontanarsi. Ma invano. In diversi punti del perimetro e, soprattutto, dalla porta d’ingresso al campo, il flusso di persone è continuo: adulti e bambini che entrano ed escono, chi spingendo una carriola, chi carico di sporte. Un fiume di «pendolari della sopravvivenza» che si riversa ogni giorno sul territorio circostante. Tutti pronti a lavorare in nero (la legge giordana, infatti, non consente ai profughi di lavorare legalmente) e per uno stipendio inferiore a quello garantito ai locali.
La vicina città di Mafraq conta 50 mila residenti giordani; ma si calcola che i profughi siriani presenti nell’area siano 70 mila. Un’invasione. I locali non ne possono più: da una parte sono sommersi di persone da aiutare; dall’altra, rischiano di perdere il posto per la loro concorrenza «sleale». Una tensione che continua a crescere ed è esplosa nelle violenze di sabato.
La popolazione del campo ha capito che rimarrà qui per anni e si sta attrezzando, a modo suo, per fare di Zaatari un posto dove vivere accettabilmente. Farsi largo tra la folla che intasa le due vie principali (quella che, a partire dal cancello d’ingresso, procede in direzione nord-sud e la sua interminabile perpendicolare), offre un’idea dei cambiamenti in atto. Le due strade sono come un suk mediorientale: non ci trovi solo generi di sopravvivenza. Ma anche rivenditori di cellulari e schede telefoniche, frutta e verdura, kebab, giocattoli per bambini; ci sono fioristi, gommisti, negozi di stoviglie e oggetti per la casa, scarpe e vestiti alla moda; addirittura vetrine di oreficeria ed esposizioni di abiti da sposa. Come in ogni suk ci si accalca, si contratta e si acquista. Anche l’Onu sta facendo la sua parte per trasformare Zaatari nella cosa più simile ad una città: lo scorso gennaio sono stati inaugurati – fatto insolito per un campo profughi – due grandi supermercati in stile occidentale; il primo è della catena statunitense Safeway, il secondo di quella araba Tazweed. Ai rifugiati, adesso, non viene più consegnato direttamente il cibo, bensì voucher (del valore di 10 dinari giordani, circa 10 euro, ogni due settimane). Questi buoni-spesa, per quanto striminziti, consentono di acquistare ciò che si vuole, dando l’illusione di un minimo di normalità.
Una città che si rispetti ha l’ufficio «dell’anagrafe», per conoscere chi siano i suoi cittadini: «In questo momento stiamo facendo una procedura di verifica per tutti i residenti – spiega Iris Blom, vice responsabile del Campo per le Nazioni Unite -. Precisamente li convochiamo per un esame biometrico (impronte digitali, peso, altezza, esame dell’iride), chiediamo la composizione della famiglia, ma anche gli studi e il lavoro, in modo da sapere chi c’è nel campo. Questo ci consentirà di impostare meglio i servizi per la popolazione. Pensa all’acqua, ad esempio: sapere che nel campo sono 90 mila, ti aiuta a provvedere la quantità d’acqua sufficiente per tutti. E poi, fare una corretta registrazione dei documenti è fondamentale anche per conoscere le necessità delle persone più deboli, come i disabili e gli anziani».
Una città decente, non può fare a meno delle scuole: «Sono ancora moltissimi i bambini che non studiano, e questo è un problema – continua Blom -. Ma stanno aumentando anche quelli che frequentano le scuole. Soprattutto dopo il fallimento dei colloqui di pace, le famiglie hanno capito che rimarranno qua a lungo e che i figli non devono perdere l’anno scolastico. Le scuole sono tre, ma presto ne apriranno altre due: seguono il programma di studi imposto dal governo giordano; la mattina sono frequentate dalle bambine e il pomeriggio dai bambini. Nel campo ci sono poi diverse aree protette con asili, scivoli, altalene, volute per mostrare ai bambini cosa sia la vita normale e aiutarli a dimenticare il trauma della guerra». Intanto le tende bianche dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur o Unhcr, se si utilizza l’acronimo inglese), stanno lentamente diminuendo: «In sostituzione delle tende abbiamo già distribuito 22 mila caravan – continua Blom -. L’obiettivo è di consegnarli a tutti, iniziando dalle persone più vulnerabili e da chi è qua da più tempo». Su moltissimi dei caravan, soprattutto nei settori 1 e 2, il cosiddetto «centro storico» del campo, abitato dai residenti di lunga data, svetta l’antenna parabolica, segno del desiderio di normalità. A Zaatari c’è anche chi la casa ha deciso di costruirsela da solo; Firas, giovane imam fuggito dalla città di Daraa, ci guida nel dedalo del settore numero 4 del grande campo. Nascosta da una tenda, una squadra di uomini e bambini sta fabbricando, con uno stampo artigianale, mattoni di fango e paglia; ce ne sono già decine ad essiccare al sole. Serviranno per la casa e, dopo, forse anche per la sua moschea, che oggi è fatta di sei tende dell’Onu montate insieme.
I problemi di Zaatari sono ancora enormi: manca la sicurezza. Il traffico di giovani siriane vendute per disperazione a ricchi arabi per quattro soldi, pare non sia debellato. C’è la prostituzione. Sono diffusi i fenomeni dei matrimoni precoci e del lavoro infantile. C’è un enorme problema di vandalismo che porta i rifugiati depredare i bagni e le cucine comuni per «arredare» i loro container e le loro tende: rubinetti, sanitari, bidoni dell’acqua… Tutto viene continuamente rubato e rimpiazzato dall’Onu che, nel tentativo di controllare meglio il territorio, ha impostato un sistema informale che prevede l’elezione, per ogni strada, di un responsabile. Sistema necessario, ma imperfetto, che lascia spazio a personalismi. E poi c’è l’enorme problema, irrisolvibile forse, di essere una città siriana spuntata in un territorio straniero, già povero di risorse.
In questo periodo, ogni giorno, Zaatari accoglie 600 nuovi rifugiati siriani. Ma a partire dal 30 aprile le cose cambieranno: ad Azraq, poco lontano, aprirà un altro, gigantesco campo profughi. Una struttura che potrà ospitare 130 mila persone. Da quel giorno Zaatari non riceverà più nessuno e potrà concentrarsi sui suoi cambiamenti.