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«Papa Giovanni, un uomo di pace»

Terrasanta.net
22 aprile 2014
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«Papa Giovanni, un uomo di pace»
Giovanni XIII sarà proclamato santo, insieme con Giovanni Paolo II, domenica prossima, 27 aprile 2014.

Pochi giorni ci separano dalla canonizzazione dei papi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II che sarà presieduta da Papa Francesco domenica prossima in piazza San Pietro. Quella di Papa Wojtyła è una presenza ancora palpitante nel cuore di molti di noi. Meno vicina, benché per nulla sfocata, è invece la figura di Giovanni XXIII, che qui vorremmo ricordare grazie alla testimonianza del francescano fra Marco Malagola.


(Milano/g.s.) – Pochi giorni ci separano dalla canonizzazione dei papi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II che sarà presieduta da Papa Francesco domenica prossima, 27 aprile 2014, in piazza San Pietro. Quella di Papa Wojtyła è una presenza ancora palpitante nel cuore di molti di noi. Meno vicina, benché per nulla sfocata, è invece la figura di Giovanni XXIII che qui vorremmo ricordare grazie alla testimonianza di fra Marco Malagola, 87enne frate minore della provincia religiosa del Piemonte.

Originario della sponda lombarda del lago Maggiore, fra Marco ha lavorato dal 1959 al 1970 in Segreteria di Stato vaticana, come stretto collaboratore del Sostituto monsignor Angelo Dell’Acqua (1903-1972). Gli anni Settanta li ha trascorsi, come missionario, in Papua Nuova Guinea. Rientrato in Italia ha lavorato nella commissione Giustizia e Pace dell’Ordine dei Frati minori, poi è tornato a servizio della diplomazia pontificia, presso le Nazioni Unite a Ginevra e la nunziatura apostolica in Belgio. Tra il 1999 e il 2004, Malagola a Gerusalemme si è occupato di diritti umani per conto della Custodia di Terra Santa.

Nel corso di una serata svoltasi a Bergamo nel giugno del 2013, fra Marco riferiva alcuni ricordi personali di Papa Roncalli risalenti al periodo della collaborazione con mons. Dell’Acqua. Di seguito ne riportiamo alcuni passaggi.

***

Cosa possedeva Giovanni XXIII per essere così tanto amato? Ricordo che, la prima volta che lo vidi da vicino, mi travolse la sua grande «umanità». Fu come un’illuminazione. Vidi nel suo volto quello di Dio! Il volto di Papa Giovanni metteva tutti a proprio agio. Era il volto di un uomo totalmente in pace con Dio e con gli uomini. Occhi amabili e paterni, che quando si posavano su qualcuno trasmettevano immediatamente pace e serenità.

Ebbi il privilegio di conoscere da vicino Papa Roncalli durante gli anni del mio servizio come segretario del Sostituto mons. Dell’Acqua. Di quel periodo conservo tuttora ricordi di incontri personali incancellabili. Quel Papa mi ha insegnato, senza volerlo, a eliminare per sempre dal mio linguaggio la parola «disperazione».

Una sera me ne sto tranquillamente tutto solo in ufficio a lavorare. A un certo momento, squilla il telefono. Monsignor Loris Capovilla, il segretario particolare di Roncalli, mi prega di richiedere all’archivio un certo documento che il Papa desidera consultare con urgenza. Passo subito la richiesta a uno degli archivisti. Dopo un po’ un secondo squillo. È ancora il segretario del Papa che mi chiede informazioni circa il documento in parola. Rispondo che la ricerca è in corso. L’archivio della Segreteria di Stato, come si può immaginare, non è come l’archivio di una diocesi: una marea di documenti vi confluisce da tutto il mondo… Passano altri pochi minuti, e poi… un terzo squillo. Stavolta è il Papa in persona. «Padre, – mi domanda – e allora? Si è trovato il documento?» Io, alquanto sorpreso di sentire la voce del Papa al telefono, ma altrettanto desideroso di assicurarlo che il documento lo si stava cercando, rispondo: «Santità, creda, lo si sta cercando disperatamente». E lui: «Cosa ha detto»? «Sì – replico io -, lo stanno cercando disperatamente, ma vedrà che salterà fuori». E il Papa di rimando, col suo fare benevolmente paterno: «Disperatamente? Ah no, figliolo, disperatamente mai. Non sai che il verbo “disperare” è introvabile nel vocabolario cristiano?». Il documento fu poi trovato e poco dopo era nelle mani del Papa.

Amava le cose semplici Papa Giovanni. Aveva un’anima francescana che incarnava nella vita, predecessore ideale del nostro Papa Francesco. Iscritto dalla giovinezza al Terz’Ordine Francescano, ricevendo nella basilica del Laterano il 16 aprile 1959 il grande pellegrinaggio che celebrava il 750.mo anniversario dell’approvazione della prima Regola, si indirizzava ai francescani secolari presenti evocando le parole che il figlio di Giacobbe rivolgeva ai suoi fratelli: «Sono Giuseppe, fratello vostro. Con tenerezza ve lo dico». E ricordava le frequenti visite a «quell’oasi di pace» del convento francescano di Baccanello, vicino a Sotto il Monte, suo paese natale in terra bergamasca.

Rammento che qualche giorno dopo la sua morte, rientrando in ufficio, mi trovo sulla scrivania un pacchetto. Lo apro, incuriosito, e cosa trovo? Una comune, comunissima sveglietta da due soldi con poche righe del suo segretario mons. Capovilla che così si esprimeva: «Padre Marco, voglia gradire, è una piccola sveglia. Forse non funziona neppure troppo bene. Ma era accanto a quel letto!» Papa Giovanni era un povero di spirito. Morì da povero. Ai fratelli, nella cascina di Sotto il Monte, suo paese natale, lasciò dieci mila lire ciascuno. Le altre cose sue disse di darle ai poveri. «Voglio morire – scrisse – senza sapere se ho qualcosa per me». Il Papa era appena morto; mi impressionò vedere i suoi fratelli arrivare in Vaticano, su, alla terza loggia del palazzo apostolico, con le valige di fibra di cartone legate con filo di spago.

I contatti telefonici tra il Santo Padre e il Sostituto erano frequenti, quasi giornalieri, e succedeva che la telefonata a volte arrivasse anche a me. La prima volta che il Papa udì la mia voce fu naturale che mi chiedesse chi ero, come mi chiamassi. Io risposi naturalmente piuttosto emozionato e quando apprese il mio nome «Marco» esclamò: «Venezia! Il mio san Marco! Non nascondo un po’ di nostalgia». Quando mi vide la prima volta con l’abito di francescano esclamò: «Che bello vedere san Francesco in Segreteria di Stato».

Manca qualche giorno al Natale del 1961. Mia mamma è in fin di vita. Per il medico curante è spenta ogni speranza. Alla sera il medico la lascia, persuaso di tornare il mattino dopo per stendere l’atto di morte. Da casa mi si comunica la notizia e io parto immediatamente con il primo aereo per Milano. Nel frattempo mons. Dell’Acqua fa sapere a mons. Capovilla le gravi condizioni di mia madre. Arrivo il mattino dopo al mio paese, Luino. Si può immaginare in quale stato d’animo, ma con mia grande sorpresa, trovo la mamma, completamente sveglia, sul letto, che mi aspetta e mi tende le braccia tra lo stupore dei familiari. Nel frattempo dal Vaticano mi arriva un telegramma: un testo breve e conciso, ma sorprendentemente significativo: «Santo Padre prega per mamma sua. Sia lieto. Il Natale è giorno di festa. Sursum corda”! Firmato: Capovilla». Che pensare? Lo sa il Signore!

Papa Giovanni non aveva segreti. Si apriva, mostrandosi cosi com’era, senza neppur badare a quello che avrebbe potuto far diminuire agli occhi di qualche formalista la sua dignità pontificale. Mi pare di vederlo. Diceva di essere stanco se era stanco, si metteva a sedere tranquillamente sulla poltrona appoggiando le mani sulle ginocchia. «Stiamo un po’ in confidenza», diceva, distendendosi. E raccontava dei suoi viaggi, dei suoi studi, dei suoi incontri, della sua vita.

Qualche settimana prima della sua scomparsa – avvenuta il 3 giugno 1963 – mons. Dell’Acqua, volle fare ai suoi due segretari, mons. Moretti e il sottoscritto, un bel regalo: un colloquio privato e confidenziale con Papa Giovanni. Ricordo, era sera. Il Papa, seduto su una poltrona del suo studio, visibilmente pallido e provato dal male che avanzava, ci ha affettuosamente ricevuti con un ampio sorriso rivolgendosi ai suoi due giovani collaboratori con la tenerezza del nonno che apre il cuore ai nipotini alla fine della giornata. Fu una conversazione pacata e affettuosa. «Cari figlioli – disse – vi ringrazio di essere venuti a trovarmi, ma soprattutto vi ringrazio del servizio che svolgete al mio caro mons. Dell’Acqua che ha voluto che io vi incontrassi per benedirvi e per fare due chiacchiere come attorno al caminetto».

E così Papa Giovanni con molta semplicità aprì il libro della sua vita raccontandoci le sue esperienze in giro per il mondo. La conversazione si prolungava con toni di affettuosa semplicità. Intanto il tempo passava e noi eravamo tutto orecchie ad ascoltare le confidenze di Papa Roncalli. Monsignor Capovilla, il fedelissimo segretario, si affacciava delicatamente alla porta. Intendeva far capire che il colloquio si prolungava troppo. Papa Giovanni faceva un gesto come per dire: ora vengo. E continuava a raccontare… Si soffermò a parlarci a lungo della storica mediazione circa la crisi di Cuba (dell’ottobre 1962) che scongiurò l’imminenza di una catastrofe nucleare e della fiduciosa speranza di un riavvicinamento con i Paesi comunisti dell’Est europeo. Non potevano mancare considerazioni sul Concilio da lui voluto e da poco avviato. Perfino interessanti accenni sulla vita vaticana di tutti i giorni. Intanto il tempo passava. Capovilla di tanto in tanto bussava invano alla porta, ma il Papa continuava a raccontare, e noi due ad ascoltare, incantati e stupiti di trovarci lì, accanto a quel santo vegliardo. Alla fine l’incontro ebbe termine. Il Papa ci accompagnò alla prima porta; sembrava congedarci e salutarci, invece no, continuava ad accompagnarci fino alla seconda, e poi alla terza porta. Ci trovammo senza accorgerci alla terza loggia di Raffaello con il Papa che non finiva di salutarci e benedirci.

Aveva e coltivava il culto dell’amicizia. Le sue lettere agli amici erano sempre improntate ad amabile familiarità. «Inviate “amabili” risposte», raccomandava ai suoi collaboratori. «Sapete – diceva – amabilità, cortesia e buona educazione sono forme di carità». Aveva l’arte dell’incontro che si fondava sul contatto personale diretto, capace di sviluppare amicizia e qualcosa di più. Era la diplomazia personale del cuore che non mancò di dare i suoi frutti.

Infatti qualcosa si stava muovendo. Il 25 novembre 61, fatto assolutamente insolito, Papa Giovanni riceve un sorprendente messaggio augurale per il suo 80.mo compleanno da Nikita Krusciov, segretario del Partito comunista sovietico. Reciproci messaggi di cortesia continueranno da entrambe le parti e benché i due non si siano mai incontrati personalmente nasce un rapporto di amicizia, maturato poco a poco in occasione delle trattative della crisi di Cuba.

Una crisi che, come si ricorderà, esplose nell’ottobre del ’62 quando, su richiesta del presidente cubano Fidèl Castro, il leader sovietico Krusciov dispose l’installazione di basi missilistiche a Cuba, attrezzate con testate nucleari in grado di colpire il territorio statunitense. Da Washington il presidente John Fitzgerald Kennedy reagì imponendo il blocco navale attorno all’isola di Cuba e minacciando un attacco militare per impedire l’installazione nell’isola di missili che riteneva decisamente inaccettabili per la sicurezza del suo Paese.

Da un momento all’altro poteva scoppiare una guerra nucleare con conseguenze inimmaginabili. Il mondo seguiva la situazione col fiato sospeso. Ricordo che in Segreteria di Stato, in un clima di intensa e febbrile attività diplomatica, era un susseguirsi di incontri incrociati di diplomatici ed emissari personali dei responsabili delle opposte posizioni tra cui si evidenziava il noto giornalista americano Norman Cousins, protagonista discreto e informale nelle trattative e nei contatti tra Kennedy, Krusciov e i diplomatici vaticani tra cui spiccava il capo del Protocollo mons. Igino Cardinale.

La situazione si faceva drammatica. Il tempo stringeva. Finalmente si aprì uno spiraglio. Si fece largo l’idea di un possibile arbitrato che consisteva nella ricerca di una autorità a livello mondiale, super partes, accetta e gradita da entrambe le parti. Alla fine si concordò che detta autorità non potesse essere che Giovanni XXIII che fin dall’inizio del suo servizio manifestava grande spirito di conciliazione. Il suo intervento non sarebbe stato sospetto di parzialità politica; di più avrebbe permesso sia a Kennedy che a Krusciov di uscire onorevolmente dalla critica situazione. Il Papa accettò di buon grado il ruolo di mediatore.

Il 25 ottobre scrisse un messaggio personale a Krusciov e a Kennedy perché in nome dell’umanità si mettessero una mano alla coscienza e rinunciassero all’uso della forza.

Il messaggio, fu consegnato agli ambasciatori russo e americano a Roma. Fu sorprendente il fatto che il giorno dopo, 26 ottobre, il quotidiano del Partito comunista russo, la Pravda, pubblicasse in prima pagina il messaggio del Papa. La risonanza fu enorme. Si poté così raggiungere una soluzione di compromesso che favorì il ritiro dignitoso dei due contendenti dalla zona del possibile scontro. Le navi russe cariche di testate nucleari dirette all’Avana invertirono la rotta e lo scontro frontale con la flotta americana fu scongiurato.

Tempo dopo Krusciov, in una lettera al cancelliere tedesco Konrad Adenauer, scrisse: «Vi è qualcosa che suscita in me grande emozione quando penso a questo uomo che si dà tanto da fare, nonostante la malattia, di vedere la “pace sulla terra” prima di morire». E aggiungeva: «Se non abbiamo pace e le bombe atomiche cominciano a cadere sulle nostre teste, che differenza fa essere comunisti, o cattolici o capitalisti o cinesi o russi o americani? Chi potrebbe dividerci? Chi potrebbe dividerci e sopravvivere per distinguerci? La mediazione di Giovanni XXIII per risolvere la crisi di Cuba fu un vero raggio di luce. Gliene fui molto grato. Mi creda, quelli furono giorni veramente pericolosi».

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