Non ci sono più parole per descrivere il dramma della Siria. O forse siamo noi a non volere più sentire parole su questa guerra terribile di fronte alla quale ci sentiamo impotenti. Fatto sta che persino i profughi e rifugiati, le vittime più indifese di questo conflitto, ormai faticano a bucare i nostri schermi. Far fare notizia ai profughi siriani sta dunque diventando una delle fatiche più quotidiane per chi si occupa di questa emergenza umanitaria. Due storie venute alla ribalta questa settimana ce lo mostrano molto bene.
Non ci sono più parole per descrivere il dramma della Siria. O forse siamo noi a non volere più sentire parole su questa guerra terribile di fronte alla quale ci sentiamo impotenti. Fatto sta che persino i profughi e rifugiati, le vittime più indifese di questo conflitto, ormai faticano a bucare i nostri schermi. Non basta più il semplice fatto che ci siano migliaia di persone ammassate in condizioni disumane nei campi di raccolta per giustificare un articolo o un servizio alla tivù. Ci serve che lì accada anche «qualcosa di speciale» perché faccia notizia.
Far fare notizia ai profughi siriani sta dunque diventando una delle fatiche più quotidiane per chi si occupa di questa emergenza umanitaria. E due storie venute alla ribalta questa settimana ce lo mostrano molto bene. La prima è la vicenda di Yehya da Homs, il milionesimo rifugiato siriano in Libano ufficialmente riconosciuto dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur). La sua storia è stata presentata con tanto di conferenza stampa ed è stata rilanciata dai media di tutto il mondo. Non c’è molto da sorprendersi, se si considera che il Libano ha appena 4,1 milioni di abitanti e dunque ormai i profughi sono un quarto della popolazione (si dice che nelle scuole i loro figli siano già più dei ragazzi libanesi).
Eppure l’idea del milionesimo rifugiato fa comunque una certa impressione: ricorda tanto quei sistemi di marketing in cui si premia il cliente che fa superare a un certo esercizio commerciale una determinata soglia. Anche perché sul conteggio personalmente ho seri dubbi: è da mesi ormai che circola questo numero di un milione di rifugiati per il Libano. E per di più tutti sanno che i profughi reali presenti nel Paese dei Cedri sono molti di più rispetto a quelli ufficialmente censiti. Probabilmente serviva qualcosa che aiutasse a far tornare a parlare di questa situazione (anche perché dei soldi promessi dalla comunità internazionale all’Ancur per far fronte all’emergenza in realtà ne sono arrivati ben pochi). Così – credo – è nata la storia di Yehya da Homs, detto «il milionesimo».
Non molto diversa è anche un’altra storia apparsa in questi giorni su diversi media internazionali: quella del Re Lear rappresentato dai ragazzi di Zaatari, l’immenso campo profughi in Giordania. L’ha raccontata il New York Times, ma vi ha dedicato un servizio anche Christiane Amanpour nel suo popolare programma che tiene sulla Cnn. Il teatro – e Shakespeare in particolare – come risposta agli orrori della guerra. Che cosa di meglio, poi, della messa in scena del Re Lear per chi a Zaatari ci è arrivato fuggendo da un regime come quello di Bashar al Assad? Sarò un po’ disincantato, ma mi sembra un po’ troppo artificiale per essere spontaneo. Assomiglia davvero tanto a un’altra operazione costruita a tavolino per permettere ai profughi siriani di guadagnarsi un titolo o un minuto nei palinsesti di una rete televisiva all news.
Si dirà: almeno così si parla di loro. Vero. Però c’è comunque il rischio di fermarsi all’emozione, senza assumersi mai delle responsabilità serie. E allora è interessante annotare anche una terza notizia di questi giorni che viene dalla Gran Bretagna, Paese che finalmente si è deciso a concretizzare un canale ufficiale attraverso cui offrire accoglienza ad alcuni profughi siriani. Una cosa che – tanto per fare un esempio – l’Italia non ha ancora fatto. Ma quanti profughi? Alcune centinaia. Briciole di fronte all’enormità del dramma siriano. Briciole che ancora una volta sembrano più un’operazione d’immagine che un tentativo di risposta. A farlo notare è intervenuto in questi giorni sull’Independent l’ex arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, che ha chiesto pubblicamente se il suo Paese non possa fare di più. Forse – alla fine – è proprio questa la domanda più vera che dovremmo avere tutti il coraggio di porci un po’ più con forza.
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Clicca qui per leggere su The Daily Star la notizia sul milionesimo rifugiato siriano in Libano
Clicca qui per leggere il servizio del New York Times sul Re Lear al campo profughi di Zaatari
Clicca qui per leggere la notizia sull’appello di Rowan Williams