Il prossimo 24 maggio Papa Francesco sarà in Giordania. Wael Suleiman, direttore esecutivo della Caritas giordana, ci racconta quello che vorrebbe dirgli. Gli parlerebbe di un Paese che si sente schiacciato dai conflitti che infuriano nella regione e che è solo ad affrontare i bisogni di milioni di profughi. Gente che ha visto il male in faccia e ha perso la speranza, anche in Dio.
(Amman) – «Il Papa viene in Giordania e noi cristiani sogniamo di avere almeno mezz’ora per dialogare con lui, per dirgli come stiamo vivendo: siamo solo il 3 per cento della popolazione, in un Paese pieno di problemi. Vogliamo dire al Papa che siamo senza speranza, senza fiducia. Non c’è più speranza per il futuro. È tutto caduto…». Wael Suleiman è il giovane direttore esecutivo della Caritas giordana e quelle che gli sfuggono, in un momento di sfogo, sono parole che non ti aspetti.
Il prossimo 24 maggio Papa Francesco sarà in Giordania. Tra le visite ufficiali programmate, il Pontefice incontrerà a Betania oltre il Giordano, ritenuto il luogo dove Gesù fu battezzato, rappresentanti dei profughi siriani ed iracheni, disabili, orfani, famiglie povere. Tutti i sofferenti del Paese. Un incontro organizzato anche con l’aiuto della Caritas giordana.
La Caritas è il laborioso braccio operativo della Chiesa cattolica di Giordania. È diffusa capillarmente su tutto il territorio nazionale, da Irbid nel nord del Paese, ad Aqaba a sud, con decine di centri e centinaia di operatori attenti ai bisogni delle persone. Nel 2013 ha fornito oltre 300 mila interventi di aiuto, di cui almeno 155 mila a favore di rifugiati siriani. Tutto ciò rende la Caritas un osservatorio unico sui problemi del Paese; e una voce da ascoltare quando denuncia il peso insopportabile che la guerra in Siria sta calcando sulla Giordania.
«La Caritas lavora in Giordania da più di 46 anni – spiega Suleiman – e si è sempre occupata di profughi: abbiamo iniziato con i palestinesi nel ’67, nell’82 sono arrivati i libanesi, nel ’91 gli iracheni, infine nel 2011 i siriani. Il fatto è che tutti questi problemi, con il tempo, non si sono risolti ma accumulati. Il Paese è pieno di profughi: stiamo parlando di 2,5 milioni di palestinesi, 500 mila iracheni, 900 mila egiziani, venuti prima e dopo la rivoluzione in Egitto, e più di un milione e 300 mila siriani: 600 mila entrati dopi l’inizio della guerra, che si sono aggiunti a 750 mila giunti qui prima del 2011 come semplici immigrati o perseguitati dal regime. In totale più di cinque milioni di stranieri in difficoltà che pesano su una popolazione giordana che conta 6 milioni di persone… Il Paese è sempre più stanco».
«Parlando della Caritas e della nostra missione – riprende il direttore –, siamo qui per servire e per aprire la porta a tutti. Ma siamo arrivati a un punto che non ce la facciamo più. Sono tantissimi i profughi che vengono ogni giorno a chiedere aiuto. Penso che per noi sia troppo… Dicono che in Giordania non c’è guerra, ma io osservo che è peggio perché noi stiamo ricevendo i popoli che soffrono. Molti siriani oggi non credono più in Dio: tanti ci hanno chiesto, in tutte le nostre visite, “Dio esiste ancora?”; un bambino di sei anni mi ha detto: “Sì, ma scusa, mio padre me lo hanno ammazzato davanti agli occhi e hanno preso mia sorella. Mia madre mi ha preso ed è scappata a piedi per 30 chilometri per arrivare in Giordania… Io non credo più che Dio esista”. Quando me lo diceva c’era con me un religioso italiano che ha iniziato a piangere. Io gli ho chiesto: padre, digli qualcosa tu… Ma lui non è riuscito, riusciva solo a piangere… È gente distrutta dentro, non ha più futuro. I valori, le cose preziose che venivano serbate nel cuore, non ci sono più, tutto è caduto. Attorno a noi è guerra, morte. I giordani, che parlano con loro e che ascoltano le loro storie, non ce la fanno più».