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La Caritas giordana per i profughi siriani

Carlo Giorgi, inviato
2 aprile 2014
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Solo il 10 per cento dei siriani che vivono in Giordania (130 mila su un milione e 300 mila) è ospitato in campi profughi. Gran parte degli altri, in fuga da casa e privi di risorse economiche, è dispersa nel Paese e vive in condizioni abitative, sanitarie - e spesso anche umane - pessime. Ad Amman visitiamo uno dei centri Caritas che li assistono.


(Amman) – Secondo gli operatori, solo il 10 per cento dei siriani che vivono in Giordania (130 mila su un milione e 300 mila) è ospitato in campi profughi. Gran parte degli altri, in fuga da casa e privi di risorse economiche, è dispersa nel Paese e vive in condizioni abitative, sanitarie – e spesso anche umane – pessime.

Nella capitale Amman la Caritas giordana, per venire in loro aiuto, ha aperto due presidi sanitari che si occupano esclusivamente di profughi siriani. Uno dei due si trova nel centro di Amman, in alcuni locali messi a disposizione dal cosiddetto «Ospedale italiano», il primo ospedale mai costruito in tutto il Paese: una struttura storica edificata nel 1926 dall’Associazione nazionale per soccorrere i missionari italiani (Ansmi) che porta ancora sulla facciata la scritta «Ospedale dell’associazione italiana pei missionari» e lo stemma reale di Casa Savoia.

«Abbiamo aperto il centro nel settembre del 2013 – racconta Hania Bsharat, della Caritas giordana – ed offriamo ai rifugiati siriani l’assistenza medica primaria. Se poi i pazienti hanno bisogno di cure più approfondite, li indirizziamo al vicino ospedale italiano o agli altri ospedali di Amman».

Un piccolo cortile recintato si affaccia sugli uffici della Caritas e funge da sala d’aspetto: il cortile è affollato da decine di persone, donne, uomini e bambini in attesa del proprio turno. All’ingresso sono assiepati i più impazienti, tenuti a bada con decisione da una ragazza che indossa la casacca blu dell’organizzazione.

«Ogni giorno riceviamo tra i 150 e i 200 siriani – racconta Hania -. In effetti il centro riceve su appuntamento e cerchiamo di fissare un numero di visite compreso tra le 70 e le 90. Ma alle visite programmate si aggiungono quelle urgenti che non possiamo prevedere, gente che ha bisogno di medicazioni immediate. Casi che arrivano anche durante la notte. Ogni giorno, ad esempio, abbiamo una media di 15 parti d’urgenza che indirizziamo all’ospedale. La richiesta d’aiuto è così forte che ultimamente abbiamo aumentato il nostro orario di lavoro di due ore».

Lo staff del centro è composto da dieci operatori di sportello, quattro addetti all’organizzazione e alla segreteria, e due responsabili. Gli operatori intervistano i pazienti e creano un fascicolo personale, per conoscere la loro storia, le loro vicende da profughi e comprenderne i bisogni. In base all’esito delle interviste, i pazienti vengono inviati ai tre dottori di medicina generale, al dentista o all’ambulatorio psicologico composto da una psicologa e tre consulenti.

«Molti dei problemi sanitari sono causati dalla mancanza di igiene in cui vivono i profughi. Non avendo risorse economiche, le abitazioni che trovano sono spesso in condizioni pessime – racconta Hania –: famiglie di dieci persone in sole due stanze, in case dove il bagno e la cucina sono divisi solo da una tenda. Tra i nostri pazienti è comune la scabbia. I siriani sono poveri anche perché non possono lavorare legalmente – continua Hania –. I datori di lavoro sanno che i siriani hanno necessità di lavorare e li sfruttano pagandoli di meno. Ho sentito di molti casi di famiglie siriane in cui la madre è venuta sola con i figli in Giordania perché il padre è morto o disperso. Queste donne, non sapendo come fare, a un certo punto chiedono ai figli di lasciare la scuola e di andare a lavorare. Per gli aiuti diamo priorità ai casi delle mamme sole e degli anziani, che sono le persone più in difficoltà».

L’ambulatorio psicologico del centro visita ogni settimana decine di pazienti affetti da patologie psichiche generate dalla guerra. Non solo donne e bambini. Sono moltissimi anche gli adulti di 40 e 50 anni. Dalle depressioni agli stati d’ansia fino alla schizofrenia. Suhad, una donna musulmana di Homs, frequenta il centro della Caritas per ricevere gratuitamente i farmaci che curano la schizofrenia del figlio: «Da quando ho queste medicine sono tranquilla – racconta –. Costano troppo e io non me le posso permettere. Mio figlio, se non prende le medicine, diventa violento e mi picchia. È diventato così durante il servizio militare: ha visto uccidere troppa gente e ha perso la testa. Quando è stato congedato siamo venuti via».

«Capita che qui in Giordania le madri siriane temano per la salute dei figli se vanno a giocare in strada con gli altri bambini – racconta Hania –. È il ricordo delle bombe, dei bombardamenti siriani… si mettono a urlare pensando che possa arrivare un aereo a bombardare».

Tra i molti pazienti del centro, quattro o cinque ogni giorno vengono a farsi curare infezioni dovute a schegge di granate, rimaste intrappolate nella carne.

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