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In memoria di padre Frans Van Der Lugt, fratello di tutti

Giampiero Sandionigi
8 aprile 2014
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Un ricordo del gesuita olandese padre Frans Van Der Lugt, ucciso ieri mattina a Homs, in Siria. Viveva nel quartiere cristiano di Bustan Al-Diwan ormai da due anni nelle mani dei ribelli che vi resistono assediati dalle truppe regolari. Padre Frans, che avrebbe compiuto 76 anni tra pochi giorni, aveva deciso di rimanere per non lasciare sola la sua gente.


(Milano) – «Se ne è andato l’ultimo cavaliere», ha scritto ieri uno dei cristiani di Siria nella propria pagina Facebook piangendo la morte del gesuita Frans Van Der Lugt, ritratto di spalle in sella alla sua inseparabile bicicletta. Il 10 aprile, il sacerdote olandese avrebbe compiuto 76 anni, moltissimi dei quali spesi in Siria, dove era giunto, dal Libano, nel 1966.

Viveva nella casa dei gesuiti nel centro storico di Homs, nel quartiere cristiano di Bustan Al-Diwan ormai da due anni nelle mani dei ribelli, assediati dalle truppe regolari che controllano il resto della città. Padre Frans aveva deciso di rimanere nel «monastero», il grande edificio della Compagnia di Gesù, per non lasciare sola la sua gente. Non era partito neppure a febbraio, quando, per un pugno di giorni, era sbocciato l’unico frutto dei negoziati di Ginevra 2: una breve tregua umanitaria che aveva consentito a molti civili di uscire dalla sacca e sottrarsi finalmente alla fame e ai disagi. Da allora i cristiani rimasti a Bustan Al-Diwan, fino a quel momento un’ottantina, si erano ulteriormente ridotti a poco più di un quarto. A loro, ma anche ad alcune famiglie musulmane accolte dentro le mura del monastero, padre Frans era rimasto ancorato. Fino a quando, ieri mattina, due uomini mascherati hanno fatto irruzione nell’edificio per mettere le mani sul religioso inerme. All’esterno dello stabile lo hanno percosso ripetutamente, prima di sparargli due colpi di pistola in testa.

La notizia del martirio di padre Van Der Lugt è subito rimbalzata di bocca in bocca e s’è diffusa tra i cristiani di Siria, che lo conoscevano ed amavano, prima di propagarsi nel resto del mondo.

Il cordoglio della Santa Sede è stato subito espresso in un comunicato della Congregazione per le Chiese orientali, presieduta dal card. Leonardo Sandri.

«Il sacerdote – si legge in un passaggio della dichiarazione – era presente nel Paese dal 1966 e di recente si era distinto per la denuncia dell’intollerabile situazione di sofferenza a Homs, ove la popolazione è al limite della morte per fame. Mentre lo affidiamo all’abbraccio misericordioso del Padre che è nei cieli, leviamo ancora l’appello perché si ridesti la coscienza dei responsabili delle parti in conflitto e della comunità internazionale, facendo cessare uno scontro che ha causato tante lacrime e spezzato innumerevoli vite innocenti, generando un flusso ininterrotto di profughi. Insieme a questi fratelli e sorelle, taluni dei quali stanno componendo pagine luminose del martirio contemporaneo, pensiamo ai vescovi, sacerdoti e semplici cittadini sequestrati».

Chi lo ha conosciuto e frequentato ricorda padre Frans come un uomo di straordinaria vitalità, molto impegnato con i giovani e gli adulti. Il suo ministero si concentrava soprattutto sul versante spirituale: predicava esercizi e ritiri spirituali, proponeva la pratica di una sorta di yoga cristiano, anche attingendo al suo bagaglio di psicoterapeuta era sempre pronto all’ascolto e all’accompagnamento delle persone nei colloqui individuali. Aveva un’agenda fittissima di appuntamenti e molti lo consideravano un punto di riferimento. Pur essendo una personalità nota tra i cristiani a livello nazionale, era uomo riservato e schivo. Non amava apparire e rifuggiva ogni presa di posizione sul terreno politico. Aveva amicizie tra gli intellettuali, ma soprattutto era vicino alle persone comuni. Parlava un arabo non colto o raffinato, ma dialettale e popolare, funzionale alla comunicazione immediata con la sua gente.

Nel monastero occupava una piccola stanza, spoglia ma ingombra di libri, e dormiva su un materasso posato sul pavimento.

In questi tempi di guerra, a Homs come a Damasco, i gesuiti offrono la solidarietà e l’aiuto possibili a tutti coloro che bussano alla loro porta, cristiani o musulmani che siano. Un’assistenza «senza barriere» che non è affatto comune.

Anche prima di quest’ultimo orribile triennio centinaia di cristiani di ogni confessione a Homs ruotavano intorno alla casa dei gesuiti di Bustan Al-Diwan. Padre Van Der Lugt era stato l’iniziatore di due iniziative particolari. La prima, denominata Masir (Cammino) era una sorta di pellegrinaggio di gruppo della durata di alcuni giorni compiuto in estate o in inverno da chi voleva fare esperienza di condivisione, solidarietà, confronto reciproco. Padre Frans era sempre in testa al gruppo dei partecipanti, pronto ad ascoltare tutti e a dialogare con ciascuno.

Anni fa il gesuita olandese aveva dato vita al progetto Al-Ard (La Terra), una sorta di azienda agricola che dava opportunità di lavoro e inserimento a disabili e a giovani con problemi vari, seguiti da volontari loro coetanei.

Nedal Al Chamma, un cristiano greco-ortodosso di Homs, ormai da alcuni anni in Italia, ricorda Van Der Lugt con commossa gratitudine. La notizia della sua uccisione, ieri, lo ha profondamente turbato. Spiega: «Ho provato vergogna davanti a lui che è stato più siriano di molti siriani. Amava il nostro popolo, amava la Siria. Non capisco come abbiano potuto fargli questo».

«Padre Frans era un grande – dice Nedal –. Quando celebrava o predicava avvertivi la differenza tra lui e gli altri preti. Mia sorella amava dire che lui ti parlava come un fratello, come uno al tuo livello. Eravamo felici quando la Messa la celebrava lui. Insieme a molti altri bambini, giovani e adulti, ho frequentato il monastero per una decina d’anni, dal 1993 al 2003. I gesuiti ci hanno insegnato ad aiutare gli altri, proponendoci esperienze di volontariato e servizio agli anziani, ai disabili, agli orfani. Per noi, in Siria, questa era un’esperienza poco comune. Il volontariato non è affatto diffuso come in Italia. La comunità attirava anche molti non cattolici, come me. Del resto i cristiani siriani sono abituati a vivere insieme e vicini, anche quando appartengono a Chiese diverse».

«Anch’io – racconta il nostro interlocutore – ho partecipato varie volte all’esperienza del Cammino, che padre Frans proponeva. Lo ricordo camminare come un ventenne in cima al gruppo. E non dimentico la frase che amava ripetere: “Andiamo avanti!”. Sento che, con la sua morte, abbiamo perso ben più di un amico. Abbiamo perso un padre. Crimini come questi non fanno che alimentare l’odio, anche perché come cristiani ci sentiamo già spogliati di tutto: del nostro Paese, delle nostre case, della nostra vita di tutti i giorni…».

Un’altra voce da Facebook: ora che padre Frans è morto, il popolo di Bustan Al-Diwan ha trovato il suo «santo patrono» in Cielo… Senza bisogno di attendere i processi canonici.

I social network ci consegnano, in arabo, anche le ultime parole pubbliche pronunciate domenica 6 aprile da padre Frans. Proviamo a tradurle: «I cristiani rimasti a Homs si chiedono: “Cosa possiamo fare?” Nulla. Ci sono circostanze nelle quali gli uomini sono impotenti. Ma Dio non abbandona coloro che credono e conosce le loro difficoltà. Dio non vuole il male e noi siamo tranquilli sotto il suo sguardo che ama. La fede ci aiuta a continuare in mezzo alle difficoltà, alimenta la speranza e ci dà la pazienza di Giobbe. La nostra situazione diventa più difficile e non possiamo fare niente. Mancano il cibo e i beni di prima necessità, ma noi cerchiamo di continuare la nostra vita. In queste circostanze sperimentiamo l’amore delle persone di buona volontà. Chi ha bisogno di cibo trova davanti alla propria porta un po’ di frumento o di lenticchie. Anche quando l’essere umano ha perso tutto deve cercare il bene negli altri e scoprire le loro qualità. Noi vediamo che il male si fa strada ma questo non può renderci ciechi al bene. Non dobbiamo lasciare che il bene abbandoni il nostro cuore. (…) Ci prepariamo alla grande gioia del passaggio dalla morte alla vita. Siamo come in un buco nero. Ma in questa oscurità scorgiamo una grande Luce. Speriamo nella risurrezione della Siria. E andiamo avanti».

Dicono che al momento di sparare, ieri mattina, l’assassino abbia urlato Allahu Akbar! («Dio è grande!»). Sì, è grande il Dio di Gesù crocifisso e dei martiri suoi fratelli. Di coloro che non consegnano il proprio cuore all’odio.

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