Linda oppure Alice? Abdul Naser o Binyamin? È intorno a nomi come questi che passa il nuovo fronte della battaglia per la salvaguardia dell'Islam wahhabita in Arabia Saudita. A Riyadh il ministero dell’Interno ha diffuso un decreto in cui si vieta ai genitori di scegliere per i propri figli cinquanta nomi che «contraddicono la cultura o la religione del regno» o perché stranieri o semplicemente perché giudicati «inappropriati»...
Linda oppure Alice? Nessuna delle due. Ma non vanno bene neanche Abdul Naser e Binyamin, che pure non dovrebbero risultare particolarmente offensivi per un musulmano. Invece è proprio intorno a nomi come questi che passa il nuovo fronte della battaglia per la salvaguardia dell’Islam wahhabita in Arabia Saudita. Come riferisce infatti il quotidiano Gulf News il ministero dell’Interno di Riyadh ha diffuso un decreto in cui si vieta ai genitori di scegliere per i propri figli cinquanta nomi che «contraddicono la cultura o la religione del regno» o perché stranieri o semplicemente perché giudicati «inappropriati».
Come si può verificare dall’elenco che compare integralmente nell’articolo che rilanciamo, alcuni dei nomi vietati suonano addirittura clamorosi: ad esempio Amir, un nome diffusissimo nel mondo arabo, messo al bando perché significa «principe»: evidentemente in un posto come l’Arabia Saudita, dove le successioni dinastiche non sono esattamente tranquille, dava un po’ sui nervi a qualcuno. Stessa sorte per Malek e Malika, che in arabo significano rispettivamente «re» e «regina». C’è poi il capitolo dei nomi di origine straniera: Linda, Alice, Sandy, Lauren… E quelli vietati perché riferiti a un titolo religioso: Nabi e Nabiyya («profeta» e «profetessa») e anche Basmala, che è un nome arabo femminile, ma è anche l’inizio del verso arabo con cui si apre ogni Sura del Corano. Dietro al divieto di alcuni altri nomi, poi, non è difficile vedere una motivazione squisitamente politica: l’unica spiegazione plausibile al fatto che un genitore non potrà dare al proprio figlio il nome Binyamin – il figlio di Giacobbe, che pure il Corano riconosce come un profeta – è il fatto che si tratta dello stesso nome del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Stesso discorso per anche Abdul Naser (altro nome arabo diffusissimo) che nei palazzi del potere a Riyadh ricorda probabilmente troppo l’omonimo leader egiziano, fautore del panarabismo.
Ci sarebbe da sorridere se non fosse l’ennesimo indizio della stretta nei confronti delle libertà più elementari in Arabia Saudita. Il diritto al nome è infatti uno dei diritti fondamentali della persona; e bandire per legge un nome solo perché di origine straniera o politicamente scorretto è una follia che dà l’idea di quale sia il grado di apertura alla circolazione delle idee all’interno del Paese.
Del resto che di un problema del genere si tratti lo rivela anche un’altra notizia – purtroppo per nulla nuova – giunta in questi giorni dall’Arabia Saudita. A Riyadh si è tenuta infatti l’annuale edizione della Fiera del libro; nell’edizione 2014 tra gli espositori debuttava una nuova casa editrice – l’Arab Network for Research and Publishing – che si presentava come una voce riformista, con traduzioni in arabo anche di testi usciti in inglese sull’Arabia Saudita. Coadiuvata da un buon battage pubblicitario sui social network, nella prima giornata aveva riscosso anche un discreto interesse. Si è però dovuta fermare lì: come infatti mostrano le fotografie pubblicate da Al Monitor alla sera è entrato in azione il Comitato per la promozione della virtù e la proibizione del vizio – vale a dire la polizia religiosa – che ha distrutto i libri e chiuso la stand.
«I libri che esaltano i pii governanti della nazione – commenta Madawi al Rasheed su Al Monitor -, quelli che si complimentano per i loro progetti di sviluppo e lodano il sostegno da loro offerto alle cause islamiche, sono ben accolti sugli scaffali della fiera. Le pubblicazioni che insegnano come fare le abluzioni durante un periodo di siccità restano abbondanti, ma quelle che preparano la gente a difendere i propri diritti come cittadini o demoliscono la storia mitizzata sono vietati. Il regime saudita, però, sta combattendo una battaglia già persa nell’era dei nuovi media, nella quale i libri circolano tranquillamente in formato elettronico. Questi raid, alla fine, non fanno altro che accrescere la curiosità della gente che va a cercare online quelle stesse pubblicazioni distrutte in formato cartaceo».
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