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Quando la coscienza dice No!

di Giuseppe Caffulli
14 marzo 2014
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Il tema dei refusenik è tra quelli decisamente più delicati, perché nella società israeliana di oggi, dove il conflitto con la Palestina e il tema della sicurezza interna si insinuano in ogni interstizio, chi non serve il proprio Paese sotto le armi finisce per essere considerato un traditore. Un movimento, quello dei refusenik, che si sta allargando, anche se rimane ancora minoritario soprattutto tra le fasce più giovani della popolazione, dove la polarizzazione delle posizioni è più forte.


Il tema dei refusenik è tra quelli decisamente più delicati, perché nella società israeliana di oggi, dove il conflitto con la Palestina e il tema della sicurezza interna si insinuano in ogni interstizio, chi non serve il proprio Paese sotto le armi finisce per essere considerato un traditore. Ne sa qualcosa Nathan Blank (di lui abbiamo parlato su Terrasanta n. 4-2013), che insieme ad altre decine di giovani israeliani ha accettato di subire il carcere piuttosto che prendere le armi. Un movimento, quello dei refusenik, che si sta allargando, anche se rimane ancora minoritario soprattutto tra le fasce più giovani della popolazione, dove la polarizzazione delle posizioni è più forte.

Per questa ragione sta facendo discutere l’iniziativa di una cinquantina di ragazzi in età di leva (maschi e femminle), che hanno scritto al premier Benjamin Netanyahu, comunicandogli di non aver alcuna intenzione di servire nell’esercito che occupa militarmente i territori palestinesi. Il testo della lettera, molto forte nei toni (si parla di violazione dei diritti umani e di crimini di guerra) esamina alcuni aspetti particolarmente odiosi, a detta degli estensori, dell’occupazione e del sistema della leva obbligatoria (tre anni per i maschi, due per le femmine): «Modella il sistema educativo, condiziona le nostre opportunità di lavoro, favorisce il razzismo, la violenza etnica, la discriminazione di genere».

Alcune storie di questi refusenik in erba sono state raccolte da +972, giornale online con simpatie a sinistra. Udi Segal, 18 anni, nato nel kibbutz Tuval, rimarca lo spostamento a destra in atto nella società israeliana. «Non posso servire in un esercito che occupa un altro popolo e rende la società israeliana più violenta».

Anche Elza Bugnet, 17 anni, ha le idee chiare: «Dobbiamo tener vivo il dibattito sull’occupazione e sulle conseguenze che questo ha sulla vita dei giovani israeliani».

Il documento non è stato firmato solo da giovani appartenenti all’area laica e progressita d’Israele. Roni Lax, 20 anni, è membro della comunità ultraortodossa , e spiega il rifiuto con motivi religiosi. La sua storia, a dire il vero, è alquanto singolare: arruolatosi all’età di 17 anni nell’esercito, ha intrapreso un percorso di obiezione di coscienza dopo aver preso consapevolezza del sistema dell’occupazione di cui l’esercito è a servizio.

Come già rimarcato, il dibattito sul servizio militare sta diventando sempre più incandescente nell’opinione pubblica israeliana: da una parte gli obiettori di coscienza per motivi politici, su posizioni decisamente minoritarie, dall’altro gli obiettori per motivi religiosi (che si oppongono anche al tentativo di costringere, con vari disegni di legge, gli ultraortodossi, finora esentati, al servizio di leva obbligatorio). Infine la recente apertura dell’arruolamento anche per arabi-israeliani cristiani (che hanno risposto in alcune centinaia); fatto questo che ha creato non poco scompiglio e divisione all’interno del tessuto palestinese, perché non è facile accettare che i propri giovani si arruolino nell’esercito israeliano.

Insomma, il servizio militare (e il rifiuto dello stesso) sta in qualche modo segnando nuove frontiere all’interno di una società già di per sé quanto mai frammentata. 

(Twitter: @caffulli)

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