Alla fine di febbraio ha fatto scalpore la notizia dell’imposizione della jizya ai cristiani della città di Raqqa, nella Siria nordorientale, controllata dai jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis). Jizya è il nome dato alla tassa specifica che la Gente del Libro (principalmente gli ebrei e i cristiani) era tenuta a versare in cambio della protezione (in arabo dhimma) offerta dallo Stato islamico. Molti musulmani – anche contemporanei – considerano perciò questa tassa una sorta di compensazione per l’esenzione di ebrei e cristiani dal servizio militare, oppure la mettono in relazione al pagamento, da parte dei musulmani, della zakat, ossia l’elemosina rituale. Queste giustificazioni, purtroppo, non reggono all’esame del testo coranico. La parola jizya ricorre una volta sola nella sura coranica del Pentimento (IX, 29): «Combattete coloro che non credono in Dio e nell’Ultimo giorno, che non vietano quello che Dio e il suo messaggero hanno vietato, e quelli, tra la Gente del Libro, che non scelgono la religione della verità, finché non versino la jizya alla mano e con umiliazione». La jizya è stata quindi concepita come punizione per il mancato ingresso nell’Islam di comunità e individui. Lo si desume anche dal caso della fiera tribù arabo-cristiana dei Banu Taghlib, la quale ha ottenuto dai primi califfi di poter pagare il doppio della zakat piuttosto che subire l’umiliazione insita nel pagamento della jizya. I commentatori musulmani si sono cimentati parecchio nella spiegazione dell’espressione «alla mano», tanto che il giurista Ibn al-Arabi cita una quindicina di interpretazioni. Quella classica dice che significa «individualmente» e che il cristiano non poteva quindi mandare un’altra persona a versare quanto dovuto al suo posto. Riguardo, invece, l’altra nozione di sottomissione contenuta nell’ingiunzione, «con umiliazione», si legge che l’apposito agente dell’erario percepiva la jizya badando a rimarcare la superiorità dell’Islam.
La pratica era diffusa fino a non molto tempo fa. Nel suo Juifs et Chrétiens sous l’Islam Bat Ye’or riporta la testimonianza di un ebreo italiano che nel 1894 è a Marrakesh. «I capi Uoida e Mulay Mustafa avevano fatto piantare la loro tenda vicino alla porta del Mellah (il quartiere ebraico – ndr) e convocato gli israeliti per ricevere da loro la jizya che sono tenuti a versare al Sultano. Hanno chiesto anche a me di andare. Mi ero informato se anche i protetti europei dovessero pagare il tributo. Avendo appreso che molti l’avevano già pagato, ho deciso di imitarli. Dopo aver consegnato ai due funzionari l’importo, ho ricevuto dal soldato del cadi (il giudice – ndr) tre colpi di bastone alla nuca. Rivolgendomi al cadi e al capo, dissi: “Sappiate che sono un protetto italiano”. A questo punto il cadi disse al soldato: “Strappagli il fazzoletto che porta alla testa e colpiscilo con forza. Vada poi a lamentarsi da chi vuole”. Il soldato obbedì e mi colpì nuovamente con maggiore violenza».
La jizya teneva conto del livello di ricchezza dei singoli individui, ma il suo ammontare aumentava man mano che alcuni cristiani passavano all’Islam per liberarsene. Lo Stato, infatti, non poteva accettare di rimetterci. In fondo, la tassa era sì percepita per proteggere i non musulmani, ma dallo stesso Islam. Nulla di strano se i copti hanno tirato un respiro di sollievo quando, nel 1855, il fondatore dell’Egitto moderno, Muhammad Alì Pascià, l’ha abolita tra altre misure volte a eliminare le discriminazioni tra musulmani e cristiani. Che qualcuno sogna nuovamente di ripristinare.