Esiste una «contro-storia» del Medio Oriente, o per lo meno la possibilità di rileggerne il mancato sviluppo usando delle categorie diverse da quelle offerte dal tribalismo, dall’islamismo e dall’autoritarismo? In questo saggio il sociologo turco Hamit Bozarslan invita a inforcare un nuovo paio di occhiali per guardare alle origini dello stato della regione.
Esiste una «contro-storia» del Medio Oriente, o per lo meno la possibilità di rileggerne il mancato sviluppo usando delle categorie diverse da quelle offerte dal tribalismo, dall’islamismo e dall’autoritarismo? Il sociologo turco Hamit Bozarslan invita a inforcare un nuovo paio di occhiali per guardare alle origini dello stato della regione.
In Sociologia politica del Medio Oriente lo storico e sociologo Hamit Bozarslan, curdologo e ricercatore all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (Ehess) di Parigi, ricostruisce la formazione dell’immagine del Medio Oriente (un’area culturale e non geopolitica, rimarca), mette in discussione i paradigmi dominanti nel dibattito delle idee sul ruolo dell’Islam nella concezione del potere nei vari Stati, sulle diverse forme di ingegneria politica che hanno dominato il rapporto fra Stato e popolo dal crollo dell’Impero Ottomano, fino ad esplorare il peso del tribalismo e le dinamiche fra fedeltà ai regimi e appartenenza comunitaria, e fra maggioranze/minoranze negli Stati.
Egli constata che non si può comprendere ad esempio l’evoluzione dell’islamismo, corrente egemonica ben diversa dal riformismo avviato alla fine dell’Ottocento da Mohammed Abduh e dai suoi seguaci (e che si è arenato con il crollo dell’Impero Ottomano nel 1918), «se si prescinde dalle sue interazioni e attriti con l’occidentalismo, la sinistra o la destra radicali degli anni 1920-1970». Esso infatti si configura come «una risposta all’esaurimento delle formule politiche universali (occidentalismo o socialismo – ndr) adottate in passato dalle élite musulmane per bloccare il declino delle loro società».
Il saggio esplora gli ultimi decenni di storia del Medio Oriente con un affascinante gioco di rimandi e di distinguo su continuità e fratture tra i diversi regimi autoritari che si sono imposti nell’area, dalla Tunisia all’Arabia Saudita. Spiega ad esempio perché l’Iran, tipico «regime sicuritario» insieme alla Siria, non possa sopravvivere a lungo termine solo attraverso la coercizione esercitata dagli apparati di sicurezza, ma debba fare periodicamente ricorso a forme di «aggiornamento dell’autoritarismo».
E sottolinea come, quanto agli spazi della società civile in assenza di partiti o spazi di espressione politica, anche la tolleranza verso l’associazionismo caritativo – che in Siria aveva fatto aumentare il numero delle Ong da 555 nel 2002 a 1.485 nel 2010, o che in Egitto ha portato a 20 mila le ong attive, 5.700 in Tunisia, 3.500 in Giordania – non è stata altro che un aspetto dell’apertura di facciata dei regimi: le ong sono state «una scappatoia attraverso la quale i poteri cercano di depoliticizzare il sociale o di promuovere la carità quale unica via per superare i problemi sociali ed economici di cui si lavano le mani».
Bozarslan individua con gli strumenti del sociologo i «luoghi di resistenza» ai regimi nei vari Paesi: in Iraq e in Giordania le tribù hanno svolto il ruolo che in passato in Turchia hanno giocato le confraternite; in Libano è soprattutto il quartiere, o lo spazio della propria comunità religiosa, a configurarsi come luogo di «aggiramento dello Stato» per antonomasia. Con una netta prevalenza nelle società urbanizzate, ovviamente: «più lo Stato e la città sono forti, più si indebolisce il tribalismo».
Certo, alcune letture che Bozarslan dava sulle forme di dissidenza nel 2010 (al momento della stesura in francese del libro), ad esempio sulla scelta della non violenza da parte dei Fratelli musulmani, risultano oggi superate. E giustamente nella prefazione all’edizione italiana l’autore definisce il saggio una «sociologia del tempo passato». Ma resta il fatto che non si possono capire gli assestamenti in corso senza conoscere quali dinamiche sociali e interpretazioni abbiano prevalso nel corso del «secolo lungo» arabo, quello iniziato nel 1918 e che si è concluso il 17 dicembre 2010 in un piccolo comune della Tunisia, Sidi Bouzid.
Sociologia politica del Medio Oriente offre perciò a ricercatori e studenti un contributo validissimo per rileggere con nuove chiavi di lettura quella storia. Con intuizioni profetiche, a rileggere quanto Bozarslan scriveva sull’uso del corpo otto mesi prima che Mohamed Bouazizi si cospargesse di benzina e si desse fuoco per protesta, sull’eventualità che i giovani arabi riuscissero a ergersi come «corpi testimonianza» per le future generazioni: «In un contesto in cui la speranza d’integrazione e, ancora di più, la speranza di un cambiamento politico sono deluse […], la gioventù non può diventare l’attore di un’alternativa generazionale; essa è condannata o all’obbedienza al potere e alla capitolazione, oppure alla dissidenza a prezzo di una violenza auto sacrificale in nome di una causa e del corpo che l’incarna».
Hamit Bozarslan
Sociologia politica del Medio Oriente
Mesogea, Messina 2013
pp. 218 – 19,00 euro