Da due mesi i dipendenti palestinesi dell’Agenzia delle Nazioni Unite per l'assistenza ai profughi palestinesi (Unrwa) sono in sciopero. Nei 19 campi profughi in Cisgiordania medici, infermieri, insegnanti, operatori ecologici, assistenti sociali hanno ingaggiato un braccio di ferro con l’Agenzia che sta ingigantendo le già gravi difficoltà dei campi. Vediamo perché.
(Betlemme) – Il fetore acidulo si infila nelle narici non appena ci si avvicini al campo profughi palestinese di Dheisheh. Cumuli di immondizia occupano quasi l’intera carreggiata della strada che corre lungo il campo e porta verso la città vecchia di Betlemme. Alcuni sacchi sono accatastati in mezzo allo spartitraffico. I rifiuti più vecchi sono completamente decomposti, un ammasso nero e maleodorante sul quale banchettano le mosche e qualche gatto randagio.
A pochi metri da uno dei cumuli di immondizia, un contadino vende la sua merce: carote, insalata, cavolfiori. L’ingresso dell’asilo nido del campo profughi è quasi del tutto bloccato dai rifiuti. Un centinaio di metri più avanti, uno degli ingressi di Dheisheh è diventato teatro della protesta dei lavoratori dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per rifugiati palestinesi che fornisce alla popolazione profuga da 66 anni i servizi sanitari, educativi, di raccolta dei rifiuti e protezione dell’ambiente.
Una piccola tenda azzurra fa ombra a una decina di sedie. Un gruppo di lavoratori presidia il picchetto. Da due mesi i dipendenti palestinesi dell’Unrwa nei 19 campi profughi in Cisgiordania – medici, infermieri, insegnanti, operatori ecologici, assistenti sociali – sono in sciopero, impegnati in un braccio di ferro con l’agenzia Onu che sta ingigantendo le già gravi difficoltà in cui versano da sempre i campi profughi. Una crisi profonda che ha spinto l’Autorità Palestinese a vestire i panni del mediatore tra l’Agenzia e i lavoratori. Ma soprattutto ha spinto 30 impiegati ad iniziare lo sciopero della fame, estrema forma di protesta: «I nostri compagni non toccano cibo da 32 giorni – ci spiega Mustafa Abu Fadi, responsabile dei vari dipartimenti in cui si articola l’attività dell’Unrwa a Dheisheh –. Le loro condizioni si stanno aggravando e due di essi sono stati portati in ospedale pochi giorni fa: Talal Imrezeq di Hebron e Naser Bazoor di Nablus».
«Le nostre richieste sono quattro: prima di tutto la riassunzione di 53 dipendenti licenziati a dicembre. Secondo l’agenzia i loro contratti sono scaduti, ma lavoravano qui da 13 anni. In secondo luogo, chiediamo la cancellazione della nuova direttiva che vieta l’assunzione di persone che hanno avuto precedenti con le autorità israeliane: quattro lavoratori sono stati licenziati dopo interrogatori da parte dell’esercito israeliano, che qui sono la normalità. Sono migliaia i prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane e vanno tutelati dalle Nazioni Unite, non sbattuti fuori».
Una disposizione che l’Unrwa nega di aver mai emesso: «Non esiste alcuna nuova direttiva riguardante i dipendenti che vengono arrestati – spiega Filippo Grandi, commissario generale dell’Unrwa –. Solamente ai dipendenti che commettono atti contrari alle regole delle Nazioni Unite vengono imposte misure disciplinari che possono, in casi gravi, arrivare al licenziamento. La determinazione di questi atti è fatta dall’Unrwa e non dal governo israeliano, né da alcun altro governo».
I lavoratori, però, proseguono la loro battaglia, intenzionati a strappare all’agenzia molto di più: «La terza richiesta che avanziamo è il ripristino del programma Job Creation, che permetteva ai rifugiati palestinesi di trovare un impiego grazie al sostegno dell’Unrwa – continua Abu Fadi –. Infine, la questione economica: i nostri salari non seguono il tasso di inflazione, ogni anno restano gli stessi seppur i prezzi in Cisgiordania, a causa dell’influenza del mercato israeliano, continuano a salire. Sono tanti i quartier generali dell’Unrwa in Medio Oriente e i salari cambiano in base al Paese di residenza, che si tratti di Siria, Giordania o Libano. Non chiediamo lo stesso salario dei dipendenti all’estero, ma che almeno quello di chi lavora in Cisgiordania sia uguale a chi è impiegato a Gaza. Nella Striscia lo stipendio corrisposto dall’Unrwa è del 9 per cento maggiore di quello in Cisgiordania».
Alla richiesta di aumento del salario medio, l’agenzia Onu risponde da mesi per le rime: i lavoratori Unrwa godono di stipendi del 20 per cento superiori a quelli dei dipendenti pubblici del Paese di riferimento. Non sarà concesso alcun aumento, una decisione derivante anche dall’attuale status finanziario in cui versa l’agenzia: lo scorso novembre il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per le questioni politiche, Jeffrey Feltman, aveva annunciato l’impossibilità di pagare gli stipendi a dicembre. A monte un deficit di bilancio di 36 milioni di dollari, dovuto al taglio dei finanziamenti nel corso degli ultimi tre anni. Una crisi che sta investendo tutte le sedi dell’Unrwa in Medio Oriente, che gestisce circa 50 campi profughi palestinesi e fornisce i servizi a quasi 5 milioni di rifugiati.
«L’Unrwa è finanziata quasi completamente dai governi attraverso contributi volontari – ci spiega Filippo Grandi –. Il Segretariato delle Nazioni Unite versa un contributo che corrisponde a circa il 2 per cento del bilancio complessivo dell’Agenzia ed è destinato al personale internazionale (circa 150 persone rispetto ai 30 mila dipendenti palestinesi). L’Onu non è la soluzione ai nostri problemi. Siamo in dialogo costante con i donatori per aumentare i contributi volontari».
«Tenga presente, però, che rispetto ai dipendenti palestinesi, la politica salariale da decenni prevede che il loro stipendio non sia inferiore a quello delle categorie professionali corrispondenti nei rispettivi servizi pubblici. Dunque in Palestina, a quello dei dipendenti pubblici dell’Autorità Palestinese. Rispetto a questi ultimi, i nostri dipendenti palestinesi guadagnano in media il 21 per cento in più, dunque non si qualificano, al momento, per un aumento salariale».
Diversa la posizione dei lavoratori in sciopero: «Il nostro salario medio è cinque volte più basso che quello in Israele – continua Abu Fadi –, ma i prezzi che paghiamo per i beni di prima necessità, l’acqua, l’elettricità sono praticamente gli stessi. Come sopravviviamo?».
E mentre il premier palestinese Hamdallah si mette di mezzo, sperando di facilitare un negoziato che non pare ingranare, le condizioni di vita nei campi sono gravissime. I bambini non vanno a scuola da due mesi e bighellonano tra le strette vie dei campi, giocando con scatoloni trovati vicino ai cumuli di rifiuti. I servizi medici sono stati drasticamente ridotti, mentre i rischi per la salute si moltiplicano a causa dell’immondizia che invade le strade.
«I lavoratori in sciopero, per garantire un minimo di decenza, hanno deciso di fornire a titolo volontario alcuni dei servizi di base – prosegue Abu Fadi –. I vaccini ai bambini sotto i cinque anni e le cure mediche ad anziani e diabetici. Per il resto, l’Unrwa si è accordata con degli ospedali pubblici perché accolgano i rifugiati e forniscano loro i trattamenti necessari. Più avanti, forse, salderanno il conto».
«Molti di noi puliscono il campo dai rifiuti, che vengono portati nelle strade intorno, così da non invadere gli spazi già minimi in cui siamo costretti a vivere da 66 anni, a causa dell’occupazione israeliana. In ogni caso, tutto il campo di Dheisheh ci sostiene. Non c’è famiglia qui che non abbia in casa un dipendente dell’Unrwa. Per cui, proseguiamo. I nostri compagni continuano lo sciopero della fame e noi non ci fermeremo fino a quando non otterremo quanto ci spetta».