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Tamarrud 2, per un cambio di rotta

di Elisa Ferrero
13 gennaio 2014
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Se c’è una cosa che la rivoluzione del 2011 ha insegnato agli egiziani è l’espressione del dissenso. Persino il celebre Tamarrud, il movimento fluido e variegato che ha riscosso il maggior successo in Egitto negli ultimi tre anni, portando alla fine del governo islamista di Mohammed Morsi, ha dovuto farne le spese. Negli ultimi mesi del 2013, infatti, è emersa una fronda interna di dissenso auto-nominatasi: Tammarud 2.


Se c’è una cosa che la rivoluzione del 2011 ha insegnato agli egiziani è l’espressione del dissenso. Persino il celebre Tamarrud, il movimento fluido e variegato che ha riscosso il maggior successo in Egitto negli ultimi tre anni, portando alla fine del governo islamista di Mohammed Morsi, ha dovuto farne le spese. Negli ultimi mesi del 2013, infatti, è emersa una fronda interna di dissenso auto-nominatasi Tammarud 2 – La correzione della rotta. Un Tamarrud dentro Tamarrud, insomma.

Tutto è iniziato nei mesi di ottobre e novembre del 2013, quando alcuni appartenenti al movimento hanno apertamente sconfessato le dichiarazioni e l’operato della dirigenza nazionale, in particolare dei due rappresentanti entrati a far par parte della Costituente, Mahmoud Badr e Mohamed Abdel Aziz. Si è assistito inoltre alle dimissioni collettive di vari membri e leader di Tamarrud nelle province del sud, che hanno denunciato la centralizzazione del movimento, secondo loro monopolizzato dalla sede del Cairo, e la marginalizzazione delle sedi periferiche. Oltre che per l’assenza di democrazia interna, la leadership cairota è stata anche criticata per aver sostenuto incondizionatamente i militari e l’attuale governo in molteplici circostanze: non condannando il massacro dei sostenitori di Morsi a Rabaa al Adawiya, il 14 agosto 2013 (che secondo Tamarrud 2 resta ingiustificato, nonostante il loro fosse un sit-in «armato»); approvando gli articoli della nuova Costituzione che consentono i processi militari dei civili e mantengono i privilegi dell’esercito; non contestando efficacemente la recente legge anti-proteste e, da ultimo, appoggiando la candidatura del generale el-Sisi alla presidenza della Repubblica.

In sostanza, l’accusa di Tamarrud 2 a Tamarrud 1 è di essere troppo subordinato ai militari. Le discordie interne di Tamarrud, fra l’altro, spiegano le tante dichiarazioni contraddittorie che lo hanno contraddistinto nell’ultimo periodo.

La rivolta interna a Tamarrud, di fatto, è avvenuta quando la vasta coalizione che lo rappresentava ha iniziato, principalmente per mano del gruppo dirigente cairota di inclinazioni nasseriane, a trasformarsi da movimento a partito politico. Il primo aveva uno scopo preciso, capace di raggruppare attorno a sé ampi settori della società e numerosi attori politici: dimissioni di Morsi ed elezioni presidenziali anticipate. Un partito politico, invece, richiede omogeneità su un programma più vasto, dunque non stupiscono le divisioni interne seguite al raggiungimento dell’obiettivo primario.

I dissidenti di Tamarrud 2, che ci tengono a precisare di non essere vicini ai Fratelli Musulmani, si propongono di rimuovere l’attuale governo e, nel dicembre scorso, hanno annunciato di aver già raccolto più di un milione di firme cartacee e mezzo milione di firme elettroniche. Altri membri «dissidenti» di Tamarrud hanno invece deciso di aderire alla campagna Il candidato della rivoluzione, che si propone di individuare e sostenere un candidato non militare alla presidenza.

I mass media egiziani non danno molto spazio a tutte queste voci discordanti, che sono comunque una minoranza. Tuttavia, la vicenda di Tamarrud 2 dimostra che nemmeno i ribelli sono al riparo dalla ribellione (in arabo, appunto, Tamarrud). Le persone non camminano più rasenti i muri – per usare un comune modo di dire egiziano – ma esternano la propria opinione politica, si ribellano e manifestano anche nelle condizioni più avverse, se lo ritengono necessario. Censura, leggi anti-proteste, repressione violenta non sono sufficienti ad arrestare questa nuova «abilità» diffusa del popolo egiziano, acquisita con la rivolta di piazza Tahrir del 2011 e particolarmente marcata fra le più giovani – e numericamente consistenti – generazioni. Nessuno, ormai, può considerarsi incontestabile. Per ironia della sorte, persino i più stoici critici della rivoluzione, che hanno sempre detto peste e corna dei giovani di Tahrir, e considerato la fine del regime di Hosni Mubarak una disgrazia per il Paese, hanno imparato a manifestare come tutti gli altri.

Anche se tanti ritengono che la restaurazione sia ormai completa in Egitto, la propagazione del «germe della protesta» sta ad indicare che non si è ritornati esattamente al punto di partenza. Questa piccola discrepanza fra ieri e oggi è ciò che fa sperare che, seppur con enorme fatica, il cambiamento possa ancora avvenire.

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