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Shoah. Una testimonianza da Casale Monferrato: «Noi, salvati dai giusti»

Manuela Borraccino
27 gennaio 2014
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<i>Shoah</i>. Una testimonianza da Casale Monferrato: «Noi, salvati dai giusti»
Il dottor Ottolenghi apre l'armadio che custodisce il rotolo della Torah utilizzato per il culto nella sinagoga di Casale Monferrato.

In occasione della Giornata della Memoria, che ricorre oggi, proponiamo la testimonianza di due coniugi ebrei di Casale Monferrato (Alessandria). Li abbiamo incontrati per un servizio sull'antica sinagoga cittadina pubblicato nel numero di gennaio-febbraio del bimestrale Terrasanta. La parola a Salvatore Giorgio Ottolenghi e a sua moglie Adriana Torre.


(Milano) – Ogni anno in occasione dello Yom Kippur Salvatore Giorgio Ottolenghi fa in modo che non manchino almeno i dieci adulti maschi necessari per condurre la preghiera nella sinagoga di vicolo Solomone Olper, una delle più antiche e riccamente decorate in Italia. E ogni anno in occasione della Giornata della Memoria Adriana Torre, moglie di Ottolenghi, svolge conferenze nelle scuole e promuove visite al Museo d’arte e di storia antica ebraica, inaugurato nel 1969 con la missione di non essere solo custode del passato ma fucina del presente e luogo vivo di incontro. Così la famiglia che rappresenta la memoria storica della comunità ebraica di Casale Monferrato (Alessandria) trasmette l’identità collettiva alle generazioni future.

«Nel 1938 avevo 16 anni, frequentavo il Liceo. Mio padre faceva l’avvocato», racconta oggi Ottolenghi, medico 91enne e presidente della comunità. «L’introduzione delle leggi razziali? Nessuno se l’aspettava. Fu come una fucilata», dice con lo sguardo cristallino dei suoi occhi azzurri, in un salotto del Museo. All’epoca la maggior parte degli ebrei casalesi erano commercianti, o professionisti come il padre di Ottolenghi. Chi poteva emigrò. Fino all’8 settembre 1943. Studente al terzo anno di Chimica a Torino, anche il giovane cercò il modo di riparare con i familiari in Svizzera. «Alcuni miei amici trovarono rifugio qui vicino, a Brusaschetto, vicino a Trino, mentre i miei si nascosero in una casa di campagna vicino ad Asti, dove io li raggiunsi e dove restammo fino alla fine di novembre. Poi i nostri amici ci diedero il contatto di qualcuno che poteva accoglierci in Svizzera. Così la notte del 5 dicembre 1943 attraversammo il confine da Chiavenna, lungo il fiume Mera, con l’aiuto della Guardia di Finanza. E lì restammo fino alla fine di luglio 1945».

Ma non tutti si salvarono: 59 ebrei vennero deportati da Casale e quattro da Moncalvo. Nessuno fece ritorno. Anche qui, dice Adriana Torre Ottolenghi, accanto alle delazioni non mancarono i gesti di civiltà. «Per chiunque si sia salvato c’è qualcuno che ha rischiato la propria vita. E per chiunque sia stato deportato c’è qualcuno che ha incassato le cinquemila lire che c’erano sulla testa di ogni uomo ebreo e le tremila lire che c’erano sulla testa di ogni donna o bambino», afferma lapidaria questa signora milanese.

Nel settembre 1943 aveva appena 10 anni. Eppure ricorda come fosse ieri la rapidità con cui giunse voce a Milano dei «fatti di Meina» (tra il 15 e il 23 settembre 1943 a Meina, sul lago Maggiore, furono trucidati 16 ebrei italiani provenienti da Salonicco, insieme ad altri 18 tra Arona, Stresa e Baveno). «Con mia sorella e mia nonna – racconta – dalla metà di settembre ci nascondemmo per alcuni mesi nel monastero di clausura delle Benedettine di Ronco di Ghiffa (sempre sulla sponda occidentale del Verbano): la madre priora, suor Maria Giuseppina, al secolo Barbara Lavizzari, è stata riconosciuta tra i Giusti d’Italia. Così anche Anna Bedone Ferrari, giovane maestra elementare che rischiò la propria vita, quella del marito e del figlio per nasconderci in casa sua nei mesi successivi. I loro nomi testimoniano delle tante persone che non girarono lo sguardo dall’altra parte».

Perché chi si offriva di nascondere un ebreo lo faceva a proprio rischio e pericolo. «La via del lago – ricorda la Torre – era chiusa dopo la strage del lago Maggiore, le montagne ci erano precluse. Così un rappresentante della ditta in cui lavorava mio padre chiese alla sorella di una delle segretarie se poteva nasconderci a casa sua. E lei accettò. Falsificammo tutti i documenti. Il nome di mio padre, Abramo, divenne Antonio; il Minerbi di mia madre divenne Minelli; l’Ottolenghi di mia nonna divenne Ottolini. Il giorno in cui avremmo dovuto restituire alla Questura di Milano le vecchie carte di identità, tutti i vecchi documenti vennero bruciati nella stufa, dando ai miei genitori la tranquillità assoluta che nessuno avrebbe potuto risalire dalle carte alle loro identità. Ancora oggi non esistono documenti della mia famiglia di quel periodo: non abbiamo pagelle delle elementari, non abbiamo ricevute, non abbiamo certificati. Tutto è andato distrutto affinché non corressimo rischi di essere riconosciuti, o trovati».

Solo dopo la fine della guerra si ebbe contezza dell’industria della morte costruita dal 1940 in Polonia. «Si parlava di campi di lavoro, di certo non di quello che è emerso dopo la guerra», dice il medico. «E per molti anni ancora non si conobbero le proporzioni. Si voleva dimenticare», gli fa eco la moglie. «Anche fra quelli che erano tornati dai campi di sterminio – dice – in pochissimi raccontavano: si preferiva rimuovere quello che si era vissuto».

Dopo la guerra, Salvatore Giorgio Ottolenghi si laureò in Chimica e subito dopo prese la seconda laurea in Medicina, proseguendo poi la carriera medica. La famiglia Torre si trasferì negli Stati Uniti, in Wisconsin, dove Adriana studiò giornalismo prima di conoscere il marito in una vacanza in Italia e decidere di restare. La loro è solo una piccola parte della storia di una comunità che ha condiviso in tutto il destino degli ebrei italiani durante la guerra. E che ha tratto nuova linfa dall’inaugurazione del Museo d’arte e storia antica ebraica di Casale Monferrato, uno dei più visitati tra i musei ebraici in Italia, accanto alla sinagoga che ha compiuto nel 1995 cinquecento anni.

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