Intellettuale egiziano: «Situazione instabile, ma lasciamo governare i militari»
L’Egitto non corre il rischio di una «dittatura militare». Se si candidasse alla presidenza della Repubblica, il generale Abdel Fattah al-Sisi «andrà giudicato sulla scorta delle sue idee e del suo programma e non sulla base dell’uniforme che indossa». Così il professor ‘Assem al-Dessuqi, docente di Storia moderna all’Università di Helwan al Cairo e tra i più aspri critici dei Fratelli musulmani.
(Roma) – L’Egitto non corre il rischio di una «dittatura militare» con l’eventuale candidatura alla presidenza della Repubblica del generale Abdel Fattah al-Sisi, che «andrà giudicato sulla scorta delle sue idee e del suo programma e non sulla base dell’uniforme che indossa». Così il professor ‘Assem al-Dessuqi, docente di Storia moderna all’Università di Helwan al Cairo e tra i più aspri critici dei Fratelli musulmani (la cui condotta di governo ha duramente stigmatizzato in un recente saggio delle edizioni il Mulino), commenta in un colloquio con Terrasanta.net i risultati del referendum che giorni fa ha approvato la nuova Costituzione egiziana.
Professore, lei ha denunciato a più riprese il processo di «islamizzazione» innescato dai Fratelli Musulmani nell’anno in cui sono stati al potere. Ma ora non si corre il rischio di una dittatura militare, magari considerata come il male minore?
Non sono d’accordo nel definire «dittatura militare» l’eventualità di un governo guidato da uno dei generali. Forse che i generali Dwight D. Eisenhower negli Stati Uniti o Charles De Gaulle in Francia venivano considerati dittatori? Credo che dovremmo definire ogni uomo di governo sulla base del suo pensiero e del suo programma politico, non dell’uniforme che indossa.
Nell’instabilità che vive l’Egitto, vede altre forze in campo oltre all’esercito?
Non c’è dubbio che la situazione politica sia instabile. Tuttavia non ci sono delle reali forze politiche in Egitto, a parte le Forze armate, che potrebbero convincere e organizzare il consenso della maggior parte degli egiziani, come è risultato evidente nella corsa alla presidenza del giugno 2012.
Come valuta l’arresto di moltissimi attivisti della rivoluzione del 25 gennaio?
Gli attivisti del 25 gennaio arrestati sono in realtà quelli che hanno cercato di far deviare la vera rivoluzione popolare, specialmente i Fratelli Musulmani e il movimento del 6 aprile che vengono finanziati dall’estero per mettere il «nuovo Egitto» sullo stesso binario del regime Sadat-Mubarak onde difendere gli interessi israelo-americani nella regione.
Qual è la sua lettura di quanto accaduto il 3 luglio 2013? È stato un colpo di Stato o un’effettiva rivolta popolare che ha portato alla destituzione di Mohammed Morsi?
Morsi ha messo davanti a tutto il suo credo religioso, ha potuto rafforzare il controllo sulla nazione grazie all’analfabetismo politico diffuso a livello popolare e alla povertà di una parte predominante del popolo, che ha perso la dignità a causa della fame. Perciò credo che a giugno ci sia stata un’autentica rivolta popolare contro i Fratelli Musulmani, a causa dei loro numerosi errori. D’altronde è impensabile che nelle condizioni socio-economiche del Paese ci siano dei cambiamenti dall’oggi al domani, come reclamato a gran voce durante le proteste del gennaio 2011. In qualche misura potremmo parlare di una sorta di colpo di Stato. Fin ad oggi non si è fatto altro che cacciare un dominatore (Hosni Mubarak) per metterne un altro (Morsi). Poi, il 3 luglio scorso, si è rimpiazzato Morsi con Adly Mansour, ma in definitiva il vecchio regime di Mubarak e del suo partito politico (Al Hizb Al Watani, il Partito nazionale democratico) sono ancora al potere, con cambiamenti di facciata ma non di sostanza. I governi che si sono susseguiti non hanno mosso alcun passo verso gli obiettivi di giustizia sociale della Rivoluzione
Lei ha accusato di ambiguità i Fratelli musulmani. Quali saranno a suo avviso le conseguenze della loro messa fuori legge?
Io continuo a denunciare la loro ambiguità: questa gente non ha appreso alcuna lezione dal passato, e non ha dimenticato quello che è stato fatto loro. Continuano a ripetere gli stessi errori, in un modo o nell’altro, e a raggiungere gli stessi risultati. Basti vedere cosa accadde loro dopo che assassinarono il premier Al Nuqrashi (nel dicembre 1948 – ndr), o cosa successe dopo il tentativo di uccidere Nasser, e nel 1965 dopo il complotto ordito da Sayed Qubt – attraverso la loro «Organizzazione internazionale» – per cacciare Nasser e far tornare re Faruk al governo dell’Egitto, per mezzo dei vecchi partiti politici. In ciascuna di queste tre lezioni della storia essi vennero sconfitti dall’autorità al governo, andarono in clandestinità e riemersero nuovamente per ripetere gli stessi errori politici.
Non si rischia di aumentare il terrorismo relegandoli nella clandestinità?
Io credo che condannarli come un’organizzazione terroristica non cambierà nulla nei loro piani: al contrario, essi aumenteranno gli atti terroristici, ma le autorità stavolta non li lasceranno più fare. Come abbiamo visto, la polizia e l’esercito li ha arrestati gradualmente. Inoltre credo che la diplomazia egiziana farà del proprio meglio per chiedere agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna e ad altri Paesi di aiutare il più possibile a sconfiggere questi clan terroristici, in modo che la Fratellanza Musulmana giunga al capolinea una volta per tutte.
I copti si sono detti «delusi» dalla Costituzione, perché l’introduzione della quota di rappresentanza da un lato offre ai cristiani la possibilità di avere rappresentanti eletti, dall’altra li discrimina rispetto ai musulmani. Lei che ne pensa?
Penso che i copti abbiano ragione, perché già i Fratelli Musulmani li consideravano «partner della Patria»: una definizione che è riconoscimento esplicito della divisione degli egiziani in due parti, e va contro le idee di nazione, cittadinanza, libertà, democrazia e qualsiasi altro concetto umanitario.
Quali sono secondo lei le misure più urgenti per soddisfare la richiesta di governance democratica espressa dagli attivisti civili?
Io credo che tra i passi più importanti da intraprendere vi siano la garanzia della libera formazione dei partiti politici, la liberalizzazione dell’azione sindacale, l’elezione dei governatori di regione per un periodo di quattro anni scelti fra gli abitanti residenti in regione. E soprattutto l’istituzione di uno «Stato di diritto» sulla base del principio di uguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione di genere, confessione, livello di istruzione e status sociale, e la tutela dei diritti personali di ciascun cittadino. Questa sarà la base di partenza della coesione sociale fra «i figli» di una stessa nazione.