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Dentro l’isola armena di Gerusalemme

Chiara Cruciati
29 gennaio 2014
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Attraversata la porta del Convento armeno, un mondo a sé si schiude davanti agli occhi del fortunato visitatore. Un luogo separato dal resto della caotica città vecchia di Gerusalemme e la cui tranquillità viene preservata da secoli dalla piccola comunità che vi risiede. Oggi gli abitanti del quartiere armeno sono circa un migliaio, un decimo di quelli del 1948.


Attraversata la porta del Convento armeno, un mondo a sé si schiude davanti agli occhi del fortunato visitatore. Un luogo a parte, separato dal resto della caotica città vecchia di Gerusalemme, la cui tranquillità viene preservata da secoli dalla piccola comunità che vi risiede.

Il quartiere armeno, parte integrante del centro storico di Gerusalemme, ha un cuore segreto. Intorno alle strade e ai vicoli percorsi dai turisti e che dalla Porta di Jaffa conducono alla Spianata delle Moschee, sorge il Convento, città nella città, inaccessibile a turisti ed estranei.

Entriamo accompagnati da un giovane armeno, Apo Sahagian: l’unico modo per visitare la piccola enclave è farsi guidare da uno dei circa mille residenti. All’ingresso, due turisti vengono fermati da una delle guardie: ingresso vietato.

Il quartiere nelle prime ore del pomeriggio è calmo, pochissime le persone che camminano nelle due piazzette e nei vicoli del Convento, solo alcuni preti vestiti di nero. È sabato, la messa nella cattedrale di San Giacomo sta per cominciare. Entriamo: una decina di religiosi ha iniziato la cerimonia. Al centro della chiesa una sedia accoglierà il patriarca, che dopo pochi minuti fa il suo ingresso tra i fedeli.

«La chiesa di San Giacomo rappresenta per noi l’inizio e la fine – ci spiega Apo, 23 anni, musicista e autore di racconti – .Qui veniamo battezzati e qui si tiene il nostro funerale. La vita di un armeno di Gerusalemme comincia e finisce in questa chiesa».

Proseguiamo la visita: intorno alla piazza principale – «la nostra piazza Tahrir», la chiama Apo – ci sono due librerie, la vecchia tipografia, una clinica. Poco prima l’ufficio postale, poco più avanti il museo. Tutti gli edifici sono in pietra bianca, come il resto della città vecchia. I balconi e le scale sono colorati da vasi di fiori e cactus. La proprietà di questi terreni è del patriarcato, che gestisce il quartiere armeno dall’epoca dei Crociati, quando cominciò la migrazione armena verso la Palestina: «Ognuno di noi possiede una casa, possiamo farci tutto eccetto venderla», spiega il nostro accompagnatore.

Alienare l’immobile, soprattutto a non armeni, è considerato inammissibile. La comunità, presente su questo fazzoletto di terra da secoli, è ancora alle prese con una volontaria non-integrazione: una minoranza tra due popoli in conflitto. Dietro sta la necessità di mantenere viva la propria identità, di salvaguardare le proprie radici e di non perdere i legami con le comunità armene sparse nel resto del mondo arabo.

La scelta dei mille armeni che vivono a Gerusalemme, dentro le mura della città vecchia, è simboleggiata dal quartiere chiuso in cui risiedono. Dentro, tutto il necessario per vivere un’esistenza autonoma e senza interferenze esterne.

«Oggi in Palestina sono quattro le comunità armene presenti – ci spiega Apo – .Oltre a quella di Gerusalemme, gli armeni vivono a Jaffa, Haifa e Petah Tikva. Le origini sono diverse, ognuno è giunto qui in differenti periodi storici, tutti legati a deportazioni, esili e massacri. Il primo nucleo della comunità è sorto durante il periodo crociato: vengono chiamati Kaghakatsiner, sono i più integrati nel mondo arabo perché presenti da secoli. La seconda ondata di immigrazione seguì al genocidio compiuto dalla Turchia, a partire dal 1915: i discendenti dei sopravvissuti vengono chiamati Kakhtaganer, che significa rifugiati. Io sono uno di loro, mio nonno fuggì dalla Turchia nel 1921 dopo essere stato deportato a Sud. Voleva raggiungere la Francia, ma fece scalo al porto di Jaffa e decise di restare».

La terza fase di immigrazione risale al 1991, al crollo dell’Unione Sovietica: a sbarcare in Israele sono i russi armeni, i cosiddetti Hayastantsiner. Seppure di religione cristiana, molti di loro si sono dichiarati ebrei per poter immigrare nel Paese, non intraprendendo però alcun percorso verso l’integrazione.

«La divisione in fasi di immigrazione è un sintomo di parziale separazione interna alla comunità – continua Apo – .Esiste una quinta comunità armena, a Betlemme. Ma è qui da talmente tanto tempo da essersi arabizzata. Molti dei suoi membri hanno nomi e cognomi di origine araba, per cui il resto della popolazione armena non li riconosce come tali. La chiusura verso la società esterna è pressoché totale: lo si coglie anche nell’utilizzo della lingua. Gli armeni parlano armeno e inglese, ma difficilmente si esprimeranno in arabo o ebraico, benché conoscano benissimo le due lingue».

Come abbiamo già detto, il Convento, cuore del quartiere armeno, è un luogo chiuso all’esterno. Dentro ci sono club giovanili, una scuola che arriva fino alla maturità, una clinica, due librerie, la chiesa e la cattedrale, il cimitero e un museo. Il necessario per vivere in autonomia.

«Sono pochissimi i bambini con amici al di fuori, arabi o ebrei. Una forma di protezione dell’identità, che sfocia nel timore dell’altro. Gli ebrei ci considerano stranieri, gli arabi ci associano agli israeliani. Basta pensare ai termini che usiamo per indicare gli altri due popoli: difficile sentir nominare “Palestina” o “Israele”, “palestinesi” o “israeliani”. Li consideriamo arabi o ebrei, e basta. A livello quasi inconscio, manteniamo così la distanza dal conflitto, a cui non intendiamo prendere parte. Gli armeni si sentono pressati in mezzo a due diverse autorità e scelgono la neutralità».

Da qui deriva la stessa concezione di Gerusalemme: il sogno della comunità armena è vedere un giorno la Città Santa aperta, internazionale. «In qualche modo gli armeni sono gli unici ad aver adottato l’identità sociopolitica di Gerusalemme – prosegue Apo –, Gerusalemme come ponte tra immigrati e nativi. Noi ci definiamo “gerosolimitani” e la nostra visione della città credo sia la più radicata. Nel caso di un accordo tra palestinesi e israeliani, quello che vorremmo ottenere è Gerusalemme come città aperta a tutti, e non capitale di uno Stato o dell’altro. Questo ci permetterebbe di salvaguardare la nostra identità, ma soprattutto di mantenere vivi e di rafforzare i legami con le comunità armene sparse in Medio Oriente, a Beirut, Damasco, Aleppo».

«Se fossimo costretti a schierarci, valuteremmo l’opzione migliore in base ai nostri interessi. A decidere, alla fine, è il patriarcato. Ogni scelta importante, all’interno della comunità, viene presa collettivamente. Anteporre le necessità del gruppo a quelle del singolo è, ancora una volta, uno strumento di salvaguardia dell’identità etnica e nazionale».

Eppure, nonostante la volontà di separazione, la comunità armena si sta lentamente aprendo all’esterno: «Sono sempre di più gli armeni che sposano palestinesi cristiani. Una “minaccia”, soprattutto quando è la mamma ad essere palestinese, perché passa più tempo del padre con i figli, che alla fine si sentono più arabi che armeni».

A ciò si aggiungono le difficoltà tipiche di chi vive in questa terra: gli armeni – in quanto minoranza etnica – affrontano la stessa realtà di chi risiede fuori dall’oasi del Convento. La guerra del 1948 e poi quella del 1967 hanno colpito la comunità, riducendone significativamente la grandezza: da 10 mila residenti nel 1948, oggi a Gerusalemme non ne restano che mille. La prima ondata di emigrazione verso l’Europa e gli Stati Uniti risale al 1948, alla Nakba e alla nascita dello Stato di Israele. Poi, la Guerra dei Sei Giorni (1967) e l’occupazione israeliana di Gerusalemme Est ha diviso in due la comunità: alcuni in mano hanno oggi la cittadinanza israeliana, altri solo il diritto di residenza a Gerusalemme, come i palestinesi della città. Lontani, ma vicini.

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