Mentre scrivo, mi raggiunge via Twitter da Homs, Siria, una foto che dice più di molte parole. Quello che era il centro della città, con palazzi eleganti e giardini abbelliti da palme da dattero e cespugli fioriti, è ridotto ad un cumulo enorme di macerie annerite. Un’immagine che ormai si ripropone da qualsiasi altra città: la Siria è un Paese distrutto.
Nonostante questa tragedia, per la quale non dobbiamo smettere di urlare la nostra indignazione, non si fanno passi avanti sulla via di una ricomposizione del conflitto. La prevista conferenza di pace, la cosiddetta «Ginevra 2», a quanto riferiscono fonti diplomatiche, non si potrà tenere prima di dicembre. I colloqui erano stati previsti prima per giugno e poi programmati per il 23 novembre. Sono infine saltati per l’impossibilità di coinvolgere rappresentanti credibili e autorevoli della galassia dell’opposizione al regime di Damasco. La principale pregiudiziale resta comunque la permanenza al potere di Bashar al-Assad: per l’opposizione è scontato che se ne debba andare; per il governo siriano è invece indiscutibile che debba restare a capo dello Stato.
Una impasse che si fa ogni giorno più critica e che ha fatto esplodere in maniera drammatica il numero dei morti (100 mila almeno, con un’impennata inimmaginabile nell’ultimo anno). Il rischio è che il tragico mix siriano (una dittatura laica sfidata da uno schieramento islamista; il confronto per nulla sereno e pacifico tra Islam sunnita e sciita; le esitazioni americane e il ruolo tutt’altro che limpido di altri attori internazionali quali Russia, Iran, Turchia, Arabia Saudita) scivoli sempre più nell’ombra, tra quelle «missioni impossibili» che ci costringono all’impotenza.
Tuttavia proprio adesso, sulla Siria sempre più percorsa dall’odio anticristiano di tanti assassini che si nascondono dietro al nome di Dio (bestemmiandolo), occorre tenere alta l’attenzione. Lo chiedono le vittime (tra cui tantissimi bambini), lo chiedono i milioni di profughi e sfollati, lo chiede la coscienza di chi non vuole piegarsi alla banalità del male.