Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Un saluto e poche righe per dire grazie

Daniel Attinger
18 novembre 2013
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In articoli precedenti ho scritto delle porte di Gerusalemme che Dio ama più di tutte le dimore di Giacobbe (Sal 97,2). Devo ora parlare di un’altra loro funzione: per esse si entra in città, ma possono anche essere varcate per uscire da Gerusalemme. È ciò che ora tocca a me. Non si parte da Gerusalemme con gioia: «Andando, se ne va piangendo…». (Sal 126,6). Per anni ho percorso le vie della Città Santa; quasi ogni giorno ho seguito la Via dolorosa, che mi ricordava certo la Passione di Gesù, ma anche la situazione in cui vivono gli abitanti di questa terra: una duplice «passione», passione-dolore per la pace che non arriva, nonostante il nome di Gerusalemme si possa interpretare come «visione della duplice pace» (pace in cielo e pace in terra, pace tra cielo e terra, pace interiore e pace esteriore…), ma «passione» anche nel senso di eccesso di amore; e credo di poter dire che gli abitanti di Gerusalemme, a qualunque religione appartengano, sono davvero appassionati della loro città e della loro terra; anch’io lo sono e lo rimarrò. Ma è venuto il momento di fare le valigie e di ripartire. I ricordi si accumulano nella mente e nel cuore e li rendono molto più pesanti dei bagagli che si portano con sé.

Non vorrei però concludere questi appuntamenti nella tristezza; i motivi certo non mancherebbero: la pace non arriva mai, l’occupazione e la violenza, anche terroristica, continuano ad andare di pari passo, l’unità fra cristiani sembra in stato di stallo, l’amicizia tra israeliani e palestinesi – che pure esiste tra molte persone – non riesce a manifestarsi, il dialogo tra le religioni non di rado assomiglia alle relazioni (leggendarie però, perché spesso non sono così) fra cani e gatti, ecc.

No. Porterò con me il ricordo di persone meravigliose che, in questi anni, non hanno solo dato senso alla mia vita a Gerusalemme, ma sono diventate parte integrante del mio vivere: la luminosa presenza dei cristiani etiopici, la fedeltà dei tre o quattro armeni che tutti i giorni dell’anno celebrano la divina liturgia davanti al Santo Sepolcro nell’orario particolarmente ingrato delle 3-4,30 del mattino, quel rabbino che ci faceva balenare le ricchezze dell’ebraismo con la sola immagine dell’occhio umano, la molto simpatica comunità cristiana di Beer Sheva‘, quei tanti pellegrini che ho accompagnato in una lettura della Bibbia in loco, e la lista si potrebbe prolungare quasi all’infinito: non farò nomi per non ferire quelli che non potrei citare. È quindi soprattutto un grande «grazie» che mi anima nel redigere queste righe.

Grazie per avermi fatto capire che la diversità è una grazia che ci arricchisce e non un muro che ci divide. Grazie per avermi sempre ricordato che tutto si svolge sotto lo sguardo di un Dio misericordioso e pietoso, che fa brillare il suo sole e fa piovere sui buoni e sui malvagi. Grazie per avermi insegnato che la persona umana, immagine di Dio, vale più delle ideologie e delle stesse religioni, nonostante non sia sempre possibile concretizzare questa convinzione. E grazie anche a voi lettori per avermi letto con amicizia.

Grazie infine al Signore: ora capisco perché tiene Gerusalemme sulle sue mani, come scrive il profeta: «“Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnata, le tue mura sono sempre davanti a me“, dice il Signore» (Is 49,16). Certo, aveva scelto Gerusalemme come luogo della sua presenza… ma l’ha anche amata e l’ama ancora con passione, la stessa con cui poi ama ogni terra e ogni uomo.

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