«Violazioni della politica editoriale». Questa la spiegazione ufficiale data il primo novembre da un’emittente privata egiziana alla sospensione del programma di satira politica condotto da Bassem Youssef. È durata così lo spazio di una sola settimana la nuova stagione televisiva di al-Barnamag («Il Programma») dopo un’interruzione di 4 mesi che hanno visto una nuova rivoluzione nel Paese.
Nella stagione precedente, lo showman popolare non perdeva occasione per far ridere gli egiziani sugli errori e le gaffe dell’allora presidente Mohammed Morsi e della Fratellanza musulmana in generale, mettendo in risalto le loro contraddizioni nonché la loro poca competenza nella gestione del governo. Con il cambio della leadership in Egitto, il sarcasmo di Youssef si è ovviamente spostato verso i nuovi dirigenti. Il conduttore ha così ironizzato nella sua ultima puntata sul nuovo governo ad interim, ma ha anche indirizzato frecciate al generale Abdel-Fattah al-Sissi, parlando di una «Sissimania» che si sarebbe impadronita dei media locali che lo presentano come eroe dopo il colpo di stato del 3 luglio scorso. Apriti cielo! L’uomo che era considerato fino a poco tempo prima il «John Stewart dell’Egitto» e che avrebbe ispirato la nuova rivolta (la rivista Time lo aveva incluso tra le 100 persone più influenti del mondo) è diventato d’un colpo un «pericolo per la sicurezza nazionale» e un traditore che avrebbe ridicolizzato l’esercito. Segno, questo, che la satira politica non ha diritto di cittadinanza nel mondo arabo? Forse sì. Le esperienze precedenti hanno quasi sempre segnato una battuta d’arresto dovuta alle pressioni governative, quando non a seri problemi con la giustizia o con gli organi della sicurezza.
Così è stato per il foglio satirico Domari, pubblicato nel 2000 a Damasco dal fumettista Ali Farzat, poi costretto a chiudere nel 2003. Motivo? Denunciava – parecchi anni prima dell’attuale rivoluzione – corruzione, repressione e mediocrità dei dirigenti siriani. Nell’agosto 2001, Ferzat è stato prelevato da alcuni uomini che l’hanno pestato a sangue in un camioncino prima di abbandonarlo per strada. Una simile esperienza era stata vissuta nel 1986 dal giornale marocchino Takchab, che aveva «osato» ridicolizzare due potenti dirigenti politici di allora. L’indomani, il commissario mandò a cercare il vignettista Hamouda (pseudonimo di Najim Kamal) e lo gettò in carcere. Takchab ha ovviamente chiuso i battenti, seguito poco dopo da un altro giornale satirico, al-Houdhoud. Una nuova generazione di vignettisti è subentrata alla fine del millennio, ma non è cambiato il risultato. Nel 2003, ha chiuso Demain dopo un processo clamoroso, mentre un caricaturista è stato condannato nel 2009 a tre anni di prigione con pena sospesa e al versamento di 3 milioni di dirham (270 mila euro) di ammenda. Il suo crimine? Un disegno che ritrae il principe Moulay Ismail, cugino del re. Diventa facile capire perché gli editori considerino il genere satirico «molto rischioso».
La satira è diventata talmente estranea alla cultura araba che non si riesce neanche più a capirla. Lo scorso 29 ottobre, per esempio, un quotidiano marocchino ha ripreso con rilievo e molta serietà un noto blog satirico spagnolo (Ect noticias), secondo il quale la Conferenza episcopale spagnola avrebbe sottoscritto un accordo con il ministro della Giustizia per concedere la cittadinanza spagnola ai marocchini che si convertono al cattolicesimo. Tra i requisiti atti a dimostrare la sincerità della conversione, si leggeva nel blog, quello di recitare un Avemaria e un Padrenostro in castigliano, «non importa se imperfetto»… Nessuno ha colto lo scherzo.