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Imad Farajin: Rido, dunque sono

Emma Mancini
18 novembre 2013
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Imad Farajin: Rido, dunque sono
Imad Farajin.

Ramallah (Cisgiordania). Imad ci prepara un Nescafè, si siede, afferra la tazza sbagliata e beve il caffè freddo del giorno prima. «È ancora più disgustoso di quello caldo – sorride –. Un palestinese non dovrebbe mai bere caffè americano, sono certo che là non sanno cosa sia un caffè».

Passare qualche ora con Imad Farajin è esilarante. Una battuta dietro l’altra, smorfie alla Jim Carrey e una malinconia di fondo tipica di ogni comico di successo: «Sono la persona più triste di tutta la Cisgiordania. Chiedetelo a mia madre. A volte le domandano quanto sia divertente avere un figlio comico in casa e lei scuote la testa: “Ma se è sempre depresso!”. Ma, sai, spero che resti sempre così: Charlie Chaplin era tristissimo, magari arrivo ai suoi livelli se resto aggrappato alla mia depressione congenita».

Appesi a un filo. Eppure Imad fa ridere tutta la Palestina. Solo sul canale YouTube di Watan ala Watar, la sua creatura, le visualizzazioni dei video sfiorano gli 8 milioni. Risate amare, spettacoli che fanno riflettere. Uno strumento in più per conoscere meglio la realtà interna palestinese di cui i media tradizionali non parlano, perché focalizzati sull’attualità dell’occupazione militare o perché dipendenti da fazioni politiche che impongono i temi.

Da una simile esigenza – raccontare alla Palestina cosa accade nel cortile di casa – è nato Watan ala Watar («La patria appesa a un filo»): «L’idea di creare lo spettacolo mi è venuta qualche anno fa, quando facevo l’attore di teatro a Ramallah – ci racconta Imad –. Teatro di alto livello: Shakespeare, Cˇechov. Uno dei primi spettacoli a cui ho partecipato è stato Re Lear. Ero emozionatissimo: durava due ore e io dovevo solo gridare “My king, my king!”. Ero convinto che dalla mia battuta dipendesse l’intero show. Insomma spettacoli bellissimi, intendiamoci, ma non lasciavano molto, né a me né al pubblico. Ad imporci certi spettacoli erano i finanziatori esterni, internazionali: fate pure teatro, basta che non parliate della situazione reale. Eppure erano tanti gli argomenti concreti… Per cui, ho iniziato a pensarci: come potevo entrare nella testa della mia gente?».

Come un cocomero. Era il 2009. Imad e la sua amica Manal, compagna di palcoscenico, sono partiti con in tasca 20 shekel e un piccolo spettacolo di 15 minuti: Imad ha in mano un cocomero e spiega a Manal la storia della Palestina. Con un coltello in mano inizia a tagliare il cocomero: Gaza, Gerusalemme, l’attuale Stato di Israele e la Cisgiordania. Taglia, taglia e taglia ogni fetta in altri cinque o sei pezzi: Nablus, Ramallah, Betlemme, Hebron. E spiega all’ingenua Manal come Israele e l’Autorità Palestinese si siano divisi tutto, ognuno pronto a mangiarsene un pezzo. «Ma allora che ne è di Gerusalemme?», chiede Manal. «Chiedilo a Netanyahu». «E che ne è di Gaza?», «Chiedi ad Hamas». «E che ne è della Palestina?». «Chiedilo al presidente Abbas!», grida Imad.

Lo spettacolo, portato in giro nelle piazze della Cisgiordania, è un successo: centinaia di spettatori per la prima stand-up comedy palestinese. «Un successo tale che la Palestinian TV, l’emittente di Stato, ci ha offerto un contratto. Così Watan ala Watar è sbarcata in televisione». Oltre al finto telegiornale, saturo di critiche verso partiti politici e istituzioni, Imad gira corti di 15 minuti sulla vita quotidiana del popolo palestinese alle prese con l’inflazione, il taglio dei salari, un’educazione scolastica sempre di più basso livello, la crisi del carburante, la religione, il servilismo dei media tradizionali e l’indebitamento con le banche.

«Ma l’entusiasmo è durato poco. Subito sono sorti i primi problemi: la leadership di Fatah, il capo della polizia, la magistratura hanno cominciato a criticarci duramente fino a convincere il presidente Abbas a farci sospendere il programma. Era il 2011. Ci siamo rivolti all’Alta Corte, ma non è servito a nulla».

Diritto di critica. Watan ala Watar non si arrende e prosegue la sua programmazione su YouTube, forte di milioni di visualizzazioni. Un lavoro duro, senza retribuzione, pagato di tasca propria. Fino al 2012, quando una tivù privata palestinese si fa avanti e compra lo show: «Ora siamo più liberi – continua Imad – Fatah si è messo l’anima in pace, forse perché è consapevole del sostegno che ci riconosce la gente. Quest’anno ne abbiamo dette davvero tante, ma per ora non ci hanno censurato».

«Questo è il mio obiettivo, la mia sfida: il diritto di critica. Io personalmente lo faccio con la parola e il corpo, facendo l’attore. Senza che a pesarmi sulle spalle ci sia alcuna ideologia o appartenenza politica: io sono tutto, sono Hamas, sono Fatah, sono il Fronte Popolare. Io rappresento la Palestina e le sue mille facce. Sto dando il mio contributo alla causa palestinese, attraverso l’arte e la risata, gli strumenti per rendere la gente consapevole, per fornirle i mezzi per comprendere la realtà».

Imad non ha autori a disposizione come il suo idolo, John Stuart. Alla base del suo lavoro ci sono le esperienze raccolte da bambino quando lavorava in strada a Ramallah come venditore di frutta e di quotidiani: «Passavo il mio tempo ad osservare la gente, ad ascoltare i loro discorsi, e immagazzinavo tutto. Io sono figlio della strada. Forse è questo che dovrebbero fare i nostri leader: camminare per strada».

Prima di salutarci ci racconta del primo incontro avuto con il presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, alla Muqata: «Ero nervoso, non sapevo come comportarmi. Gli ho detto: “Buongiorno Abbas, che si dice?”. Mi ha risposto: “In genere le persone si rivolgono a me chiamandomi presidente”. Che figura! Poi ci siamo seduti, mi ha offerto tè e caffè, ma non diceva una parola.  Alla fine ha aperto un cassetto della scrivania e si è messo a cercare. Ho pensato, “Ecco, ora mi dà qualche soldo per il programma”. Invece tira fuori un rosario islamico regalatogli dal re dell’Arabia Saudita. Me lo dona, io ero al settimo cielo: l’Arabia Saudita! Varrà migliaia di dollari! A casa ho aperto la scatola: era made in China».

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