Ci sono molte ragioni per tener d’occhio Bethlehem, l’esordio nel lungometraggio del giovane regista israeliano Yuval Adler. Un film che sta circolando nelle sale israeliane e che in Italia, per ora, è stato solo presentato alla decima edizione delle Giornate degli Autori svoltasi a Venezia, nel quadro della Mostra del Cinema, dal 28 agosto al 7 settembre scorsi.
Per cominciare, si tratta di una produzione che vede gli israeliani e i palestinesi lavorare gli uni accanto agli altri. Palestinese è Ali Wared, ex giornalista e funzionario dell’Autorità Palestinese, che ha firmato la sceneggiatura assieme ad Adler. Israeliani e palestinesi sono gli attori protagonisti, in un cast composto per la maggior parte da non professionisti. E il progetto ha ricevuto il beneplacito dell’Israel Film Fund, l’ente pubblico israeliano per il sostegno al cinema di qualità.
La storia è quella di una relazione complessa fra il 17enne Sanfur, fratello minore di Ibrahim, il combattente delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa più ricercato del momento, e Razi, l’agente dei servizi segreti israeliani che ha reclutato Sanfur come informatore due anni prima, crescendolo come il figlio che non ha mai avuto, e ricoprendolo di quelle attenzioni che, in quanto fratello minore di un “eroe”, lui non ha mai ricevuto.
Tutti e due sono in contrasto con i propri mondi a causa dell’affetto che nutrono nei confronti di un “nemico”. Per entrambi, il loro rapporto è costantemente in bilico fra la fiducia e il tradimento, fra sentimenti di appartenenza familiari e nazionalistici e valori costruiti e indotti. E quando Ibrahim provoca un nuovo attentato, con i servizi segreti israeliani che cominciano a stringere il cerchio attorno a lui, tutto questo verrà inevitabilmente messo in discussione, con conseguenze imprevedibili e tragiche.
Se qualcuno contesta il film accusandolo di essere “sionista”, in realtà Adler cerca di non prendere posizioni incrollabili, o ancora peggio ideologiche, né di dare spiegazioni o di esprimere giudizi scontati. Basti guardare alla rappresentazione del mondo palestinese non come un blocco monolitico, ma come insieme di fazioni qualche volta perfino armate l’una contro l’altra per ragioni politiche, religiose o strategiche (una situazione poco nota al di fuori del Medio Oriente). Il regista scansa anche il rischio di cedere allo stereotipo di una distinzione netta fra i buoni e i cattivi, preferendo raccontare quella zona grigia in cui non è possibile distinguere con assoluta certezza gli uni dagli altri.
Vincitore a Venezia del Premio Fedora, e di 6 Ophir Awards assegnati dall’Accademia israeliana del cinema e della televisione, il film rappresenterà Israele agli Academy Awards del prossimo anno, concorrendo per il Premio Oscar per il miglior film in lingua straniera.