«A causa dell’occupazione israeliana e delle sue conseguenze sulla vita quotidiana, non facciamo più caso alla bellezza della Palestina, alla sua incredibile biodiversità». A parlare è Simon Awad, direttore del Centro di educazione ambientale di Beit Jala, alle porte di Betlemme, punto di riferimento per la salvaguardia della flora e della fauna in Terra Santa.
(Jenin) – «A causa dell’occupazione israeliana e delle sue conseguenze sulla vita quotidiana, non facciamo più caso alla bellezza della Palestina, alla sua incredibile biodiversità». Simon Awad, direttore del Centro di educazione ambientale di Beit Jala, alle porte di Betlemme, sta dedicando la sua vita di studioso all’ambiente della sua terra. Il centro, attivo dal 1986, è presto diventato il punto di riferimento nella salvaguardia della flora e della fauna palestinesi.
Un museo di storia naturale, un giardino botanico, una stazione di monitoraggio degli uccelli e una serie di attività di educazione ambientale, rivolte soprattutto alle nuove generazioni: «Per poter sviluppare una società in maniera sana – ci spiega Simon – è necessario puntare su tre aspetti: economico, sociale e ambientale. In Palestina ad influenzare negativamente la cura dell’ambiente naturale sono sia il comportamento della popolazione che l’occupazione militare. Dal 2000 Israele ha creato oltre 500 checkpoint militari e costruito oltre cento colonie che impediscono oggi l’accesso alle trenta discariche che prima i residenti della Cisgiordania utilizzavano».
A ciò si aggiunge un’attitudine molto diffusa tra la popolazione palestinese che guarda all’ambiente non come lo spazio di tutti, ma come quello di nessuno. Un’attitudine che richiede un intervento alla base: «Si sono radicati dei comportamenti completamente erronei, dallo spreco delle risorse idriche alla gestione dei rifiuti, spesso lasciati a marcire per strada, fino all’utilizzo sbagliato dell’elettricità. L’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) non è d’aiuto: è un governo ancora giovane e privo delle competenze necessarie ad affrontare la questione ambientale, vuoi per mancanza di professionisti qualificati, vuoi per il clientelismo che porta persone inadatte ad occupare posizioni strategiche. Inoltre l’Anp non ha il controllo di gran parte del territorio della Cisgiordania, che per il 60 per cento è sotto l’amministrazione israeliana».
Quello che l’Autorità non fa, lo fanno le associazioni di base. Il Centro di educazione ambientale di Beit Jala (espressione della Chiesa luterana in Terra Santa – ndr) è da anni promotore di iniziative indirizzate ai bambini, ai giovani e ai contadini. Oltre a campagne nazionali – volte a sensibilizzare sullo spreco di risorse e su un loro utilizzo alternativo o a spiegare come occuparsi della manutenzione delle auto – in Cisgiordania sono stati creati 26 Club dell’ambiente, a cui partecipano un centinaio di bambini l’anno, ovvero gruppi che studiano l’ambiente in cui vivono per poi trovare soluzioni concrete per la salvaguardia dell’ambiente. «Teniamo lezioni in moltissime scuole della Cisgiordania, consapevoli che un bambino convinto della necessità di prendersi cura dell’ambiente influenzerà i comportamenti della sua famiglia – continua Simon –, ma lavoriamo anche con i contadini, spingendoli a tornare ai metodi tradizionali di coltivazione che sono gli unici in grado di tenere conto dell’ambiente e di giungere a una produzione biologica vera e propria. E ogni anno, nel Festival dell’Olio, facciamo incontrare i produttori e i consumatori, ridando vita alle vecchie reti commerciali».
Il tutto inserito in un progetto più ampio, Eco-Justice for Palestine: la protezione dell’ambiente è parte integrante della lotta del popolo palestinese. Che spesso è solo di fronte a una simile sfida e allora mette in campo la creatività. Come ‘Ala, giovane di Betlemme, per anni dipendente di varie organizzazioni non governative in Palestina. Qualche mese fa ha deciso di trasformare la sua passione in un lavoro a tutti gli effetti: costruire oggetti di uso comune utilizzando i rifiuti.
Lo scorso 10 giugno ha inaugurato i suoi prodotti e lanciato il suo nuovo brand Resign alla Fiera dell’Ambiente di Jenin, evento organizzato dall’Autorità Palestinese, dall’Università Al Quds e dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) per trattare un tema spesso lasciato ai margini in una terra presa da questioni politiche più stringenti. Obiettivo dell’evento – a cui hanno preso parte scolaresche di tutta la Cisgiordania e organizzazioni non governative palestinesi e internazionali – è quello di creare maggiore consapevolezza rispetto all’ambiente. «Ho iniziato a produrre oggetti cinque o sei anni fa: bicchieri, lampade, cuscini, lenzuola, gioielli – ci spiega Ala’ –. Non immaginate nemmeno quante cose possano essere ottenute lavorando bottiglie di vino o di birra, buste di plastica, barattoli di tonno, contenitori per il latte. La mia è una sperimentazione continua. L’obiettivo non è semplicemente creare soprammobili o oggetti esteticamente belli, ma di produrre cose da poter utilizzare nella vita di tutti i giorni. Tutto si può riciclare. Se prima gettavo nella spazzatura cinque chili di rifiuti al giorno, adesso butto via solo un chilo la settimana».
Nella cura e nel rispetto dell’ambiente, in Cisgiordania, interferisce anche il fattore dell’occupazione israeliana. Tra gli effetti più concreti c’è la confisca di terreni agricoli, principale fonte di sostentamento per comunità tradizionalmente contadine. La perdita di terre a favore delle colonie israeliane o del Muro di Separazione, insieme al mancato controllo delle risorse idriche, ha provocato il crollo della produzione agricola, che oggi rappresenta meno dell’8 per cento del prodotto interno lordo (Pil) dei Territori Occupati.
A ciò si aggiunge la perdita di coltivazioni tradizionali palestinesi, per mancanza di spazio o di forza lavoro. Come spiega l’associazione Land Research Center (Lrc, Centro di ricerca sulla terra), molte piante sono scomparse perché distrutte dagli scarichi delle colonie israeliane residenziali ed agricole che molto spesso inondano i campi palestinesi vicini con rifiuti solidi e liquidi. In uno studio appena pubblicato e riferito all’anno 2012, l’Lrc ha catalogato le comunità palestinesi colpite dal problema degli scarichi israeliani: le fognature che terminano nei villaggi hanno danneggiato il raccolto di decine di comunità in tutta la Cisgiordania, per un totale di 3.985 dunam (398,5 ettari) di terre agricole distrutte.
Per questo da due anni il ministero dell’Agricoltura dell’Autorità Palestinese ha lanciato un programma per la produzione di semi e di erbe, tipici della Terra Santa ma minacciati di estinzione. «L’obiettivo è conservare le coltivazioni locali e i frutti della terra – ci spiega Samer Jarrar, presente alla fiera di giugno in rappresentanza del ministero, con un banchetto pieno di barattoli di semi di ogni genere –. Produciamo semi, mandorle, noci, frutta selvatica, erbe e radici. I nostri laboratori operano in due modi: per ogni pianta conserviamo 1.200 semi ad una temperatura inferiore ai 20 gradi, per mantenerli nel lungo periodo; inoltre, ogni anno consegniamo mille qualità di semi e mille di erbe a 300 contadini in tutta la Cisgiordania. Loro li piantano e noi seguiamo l’intero percorso. In questo modo manteniamo vive le coltivazioni».