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Il riconoscimento di Giusto tra le Nazioni a madre Giuseppina Biviglia

Giampiero Sandionigi
14 ottobre 2013
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Lo Yad Vashem, istituzione israeliana che a Gerusalemme cura il memoriale dell’Olocausto, ha deciso di attribuire il titolo di Giusto fra le Nazioni a madre Giuseppina Biviglia (1897-1991), una clarissa che durante la seconda guerra mondiale fu badessa del monastero di San Quirico, ad Assisi, e contribuì a salvare la vita di numerosi ebrei. Come lei, riconosciuta «giusta» anche suor Ermella Brandi, all'epoca superiora del convento assisano delle Stimmatine.


(Milano) – Le clarisse del monastero di San Quirico, ad Assisi, fanno festa. Lo Yad Vashem, istituzione israeliana che a Gerusalemme cura il memoriale dell’Olocausto, ha deciso di attribuire il titolo di Giusto fra le nazioni anche a madre Giuseppina Biviglia (1897-1991) che durante la seconda guerra mondiale fu abbadessa del piccolo monastero e prese parte alla rete clandestina che ad Assisi, sotto il coordinamento del vescovo mons. Placido Nicolini, contribuì a salvare la vita di alcune centinaia di ebrei. La consegna del riconoscimento dovrebbe aver luogo nei prossimi mesi ad Assisi o a Foligno (Perugia), dove vivono alcuni congiunti della religiosa.

Madre Giuseppina, nata a Serrone di Foligno (Perugia) il 31 marzo 1897 e morta a 94 anni il 31 marzo 1991, entrò in monastero il 13 maggio 1922 in qualità d’insegnante alla lavorazione delle telerie elettriche, lavoro che permetteva il sostentamento della comunità. L’8 settembre 1922 chiese d’iniziare il probandato e il 18 marzo 1923 fece la vestizione con il nome di suor Maria Giuseppina di Gesù Nazareno. Il 19 marzo 1927, solennità di san Giuseppe, fece la professione solenne. Guidò la comunità di San Quirico come madre abbadessa dal 1942 al 1945, dal 1945 al 1948, dal 1964 al 1967 e dal 1967 al 1970.

In un memoriale, datato 6 marzo 1948, madre Biviglia rievocava gli eventi bellici con queste parole: «… Mentre fino dal settembre 1943 s’intensificava l’offesa aerea anglo-americana sull’Italia con somma sorpresa di tutti, mentre in patria rincrudivano persecuzioni politiche, vendette personali e ordini odiosi venivano spiccati contro Ebrei e soldati ligi allo spirito dell’armistizio, i nostri Istituti divenivano luogo di rifugio agli sbandati, ai perseguitati politici, ai fuggitivi, agli Ebrei, agli evasi dai campi di concentramento. Ne ebbe la sua parte il nostro Monastero. Superfluo dire che incapaci noi stesse di capire quanto avveniva in tanta confusione, si obbediva solo a un sentimento che sorgeva spontaneo di volta in volta che si presentavano dei disgraziati: davanti al dolore di ciascuno avrebbe taciuto ogni velleità di giudizio, anche se avessimo saputo darne uno: la pietà avrebbe in ogni caso trionfato come trionfò. E trionfò per amor di Dio e del prossimo: il Primo dava l’impulso ad aiutare il debole; il secondo quasi sempre innocente viveva in quei giorni sotto l’incubo degli arresti, dei campi di concentramento, della fucilazione e peggio! Devo dire tuttavia che qualche volta opposi un po’ di resistenza all’accettazione di queste persone sentendo tutta la responsabilità della mia posizione di fronte alla Comunità e temendone per questa qualche conseguenza: ma in quei momenti fui sempre incoraggiata dal nostro Venerato Superiore, da altri Sacerdoti e dalle mie stesse Consorelle ad agire in favore di quei poveretti».

Le suore accolsero nella loro foresteria una varietà di ospiti, più o meno in grado di pagare l’alloggio. «Le persone che si rifugiavano da noi – scriveva madre Biviglia – furono, per grazia di Dio, nei nostri riguardi tutte oneste, rette, buone, e anche religiose, tanto i cattolici quanto gli Ebrei. Venne qualche fascista durante il Governo Badoglio e dopo l’entrata degli Americani; qualche socialista in certi momenti di pericolo durante la Repubblica Sociale. Subito dopo l’8 settembre avemmo ufficiali e soldati del R. Esercito ligi al giuramento costituzionale, e poco più tardi un folto numero di Ebrei (era proprio un’arca di Noè)».

Nel suo memoriale, la clarissa evoca anche uno dei momenti più drammatici per il monastero. La polizia segreta fascista e i tedeschi hanno capito che ad Assisi c’è una rete clandestina di assistenza che la Chiesa locale ha messo a disposizione anche degli ebrei. Si cercano le prove e alla prima occasione viene ordinata una perquisizione a San Quirico, che è solo una delle varie case religiose femminili ad aver aperto le porte ai perseguitati. È il 27 febbraio 1944, pochi mesi prima della liberazione d’Assisi da parte degli Alleati, che arriveranno in giugno.

«Il giorno prima – ricorda la badessa – due dei nostri giovani (un croato già evaso da un campo di concentramento della Jugoslavia, e un Ufficiale dell’aviazione Italiana) si erano tolti al loro rifugio per unirsi ad altri due o tre compagni per una corsa a Perugia in bicicletta, con proposito di ritornare al più presto, ma il viaggio di ritorno fu loro fatale, perché, causa l’accento straniero del giovane croato, tutta la comitiva fu sospetta a certi agenti della R.S. (che cercavano appunto in quei giorni un delinquente croato) e da questi tratta in arresto. Lo stesso giovane, al primo interrogatorio, non seppe schermirsi dal dichiarare il suo luogo di abitazione, il nostro Monastero, e perciò il 27 mattina, Domenica, gli agenti erano qui per un sopralluogo, dopo di aver fatto circondare da forze il Monastero stesso. I funzionari della R.S. entrarono per l’ispezione della foresteria e poi vollero che mi presentassi alla grata. Dopo un penosissimo colloquio, durante il quale quasi tutta la Comunità era raccolta in Coro a pregare, mi convenne mostrar loro il dormitorio grande, ossia l’appartato luogo di rifugio degli Ufficiali e dei giovani Ebrei. In quel momento là entro c’erano i due fratelli Maionica e il Colonnello Gay che dormivano saporitamente: si ebbe appena il tempo di far entrare in clausura i due fratelli, mentre il col. Gay affidato alla speranza d’aver libero passaggio tra i funzionari e gli agenti, a causa de’ suoi capelli bianchi (infatti essi cercavano solo di stabilire la verità dei fatti denunciati dagli arrestati, che riguardavano soltanto la loro persona) credette di poter uscire ma fu invece fermato nell’ortino e coi funzionari condotto al Dormitorio, affinché egli stesso desse informazioni su se stesso, sui suoi compagni e sui motivi della sua presenza in questo luogo. Il Col. Dichiarò in seguito l’esser suo».

«Va ricordato – prosegue il racconto – che fra il Settembre ’43 e il febbraio ’44, la nostra pattuglietta di rifugiati, conosciuta l’esistenza della grotta sotterranea con un unico ingresso in discesa dall’ortino di foresteria, l’avevano giudicato un buon luogo di rifugio in un caso estremo, purché si togliessero le tracce dell’ingresso suaccennato e si aprisse una botola entro clausura. Con un lungo lavoro avevano realizzato il progetto e ciò si mostrò veramente provvidenziale la mattina del 27 Febbraio ’44, quando si trattò di salvare almeno i fratelli Maionica (due giovani ebrei nascosti a San Quirico – ndr), con la loro roba: anzi, la stessa grotta servì da nascondiglio anche a tante cose preziose e care di tutti gli ospiti in quel momento di panico. Dunque, alla porta tra il Dormitorio e la Clausura, ebbe luogo altro increscioso colloquio tra i funzionari, il Colonnello e me. Le affrettate misure prese lì per lì per occultare la presenza dei due fratelli non avevano potuto prevedere tutto, ed infatti, oltre il letto del Col. Gay che figurava d’essere il solo rifugiato in quel giorno – dopo l’arresto degli altri – trovarono anche un altro letto caldo, quello che uno dei due fratelli aveva appena abbandonato in fretta e in furia, e c’era stato solo il tempo di assestarlo. Così i funzionari, avendo dovuto aspettare per qualche momento, ebbero la sicurezza che qualcuno, in quel tempo, era fuggito per la clausura ove minacciarono di entrare, progetto non effettuato, perché, dietro la mia parola affermativa, “entrino pure e si accertino da loro”, immaginarono impossibile il fatto che il fuggitivo si fosse trattenuto in clausura, ma solo che attraverso a questa, da noi favorito, si fosse dato alla fuga: allora, esasperati, minacciarono di condurmi in prigione: io risposi con una franchezza insolita “Eccomi pronta; munitevi di permesso, perché sono monaca di clausura e non posso abbandonarla senza autorizzazione”. Per grazia di Dio non ne fu nulla. Dio sa quanto mi premeva la sorte di quei due poveri giovani, quanto tremavo anche per il Monastero e con quale intimo spasimo cercassi di mostrarmi calma e sicura. Forse anche questo atteggiamento giovò, perché alla fine e per quel giorno, se ne andarono, portandosi seco, purtroppo, il povero Colonnello, uomo altamente retto e virtuoso, ch’era stato la nostra ammirazione per circa sei mesi. (…) Come detto, nello stesso giorno tutti i nostri ospiti straordinari sparirono, o meglio cambiarono alloggio: quanto ai nostri fratelli Maionica, rimasero tutto il giorno a patire freddo nella grotta che si era mostrata così provvida all’atto pratico, col buio della sera uscirono con le loro valige e, accompagnati dal Guardiano di S. Damiano (ch’era allora Padre Rufino Niccacci), se ne andarono in altro alloggio. Quanto invece agli arrestati, ebbero a soffrire parecchi mesi di prigionia, addolcita peraltro dalla presenza delle Suore delle Carceri, essendo stati posti in quello ch’era il reparto femminile, alle dipendenze delle Suore appunto. In tempi diversi uscirono tutti, grazie a Dio, sani e salvi. E tutti serbarono amicizia e riconoscenza anche verso il nostro Monastero e verso tutte le persone che li avevano aiutati. La Domenica appresso del primo interrogatorio, cioè il giorno 5 marzo, io ne subii un altro da parte del ViceQuestore di Perugia, d’un Brigadiere e del Commissario di Polizia di Assisi, per la stesura del verbale relativo agli arrestati: colloquio come il primo, assai increscioso. E poi non ebbi più noie».

Tra coloro che ad Assisi, tra il 1943 e il 1944, contribuirono a salvare la vita degli ebrei, il titolo di Giusto delle Nazioni è stato attribuito, in ordine di tempo, al frate minore padre Rufino Niccacci, al vescovo mons. Giuseppe Placido Nicolini, a don Aldo Brunacci e ai tipografi Luigi e Trento Brizi, padre e figlio.

Ora si aggiungono anche madre Biviglia e suor Ermella Brandi, all’epoca superiora del convento delle Stimmatine (per esteso: Povere Figlie delle Sacre Stimmate di San Francesco d’Assisi) che, sempre ad Assisi e a pochi passi da San Quirico, offrirono rifugio sicuro ad altri profughi ebrei.

La rete assisana di assistenza agli ebrei poté avvalersi anche della collaborazione del campione di ciclismo Gino Bartali, militante dell’Azione Cattolica coinvolto nell’impresa dall’arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa. Lo stesso Bartali, dopo una lunga istruttoria, è da poco stato riconosciuto Giusto fra le Nazioni dallo Yad Vashem. Un omaggio al campione si è svolto a Gerusalemme, nel Giardino dei Giusti presso il Memoriale dell’Olocausto, il 10 ottobre scorso. A rappresentare la famiglia Bartali, il figlio di Gino, Andrea.

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