L’economia palestinese potrebbe compiere un balzo in avanti molto significativo se le restrizioni che la politica di sicurezza israeliana impone nell’Area C dei Territori Palestinesi, e in particolare in Cisgiordania, fossero abolite. Lo dice la Banca Mondiale in un rapporto reso pubblico nei giorni scorsi.
(Milano/g.s.) – L’economia palestinese potrebbe compiere un balzo in avanti molto significativo se le restrizioni che la politica di sicurezza israeliana impone nell’Area C dei Territori Palestinesi, e in particolare in Cisgiordania, fossero abolite. Lo dice la Banca Mondiale in un rapporto reso pubblico nei giorni scorsi.
La sezione Medio Oriente e Nord Africa del dipartimento per la Riduzione della povertà e la Gestione economica, dell’organismo internazionale con sede a Washington, ha fatto un po’ di conti e li ha messi in fila in un documento dal titolo Cisgiordania e Gaza. Area C e futuro dell’economia palestinese, datato 2 ottobre 2013.
Il testo parte da un dato: il 61 per cento della superficie della Cisgiordania è poco o nulla accessibile ai palestinesi, che vi subiscono restrizioni alla libertà di movimento e di impresa imposte dall’occupazione militare israeliana. Sono terre che rientrano nell’Area C definita dagli Accordi di Oslo del 1993. Un’area che entro il 1998 avrebbe dovuto passare sotto il controllo palestinese (salvo negoziati sulle zone occupate dagli insediamenti). Controllo che invece è rimasto saldamente in mani israeliane.
A differenza delle Aree A e B dei Territori (che includono essenzialmente le principali città e villaggi palestinesi), l’Area C è caratterizzata da continuità territoriale e da una ricca dotazione di terreni agricoli e risorse naturali.
Se l’economia palestinese potesse avvalersi di queste risorse, anche tenendo conto di criteri di eco-compatibilità potrebbe incrementare il prodotto interno lordo di un 35 per cento. In pratica, secondo gli esperti della Banca Mondiale, il regime di restrizioni causa ai palestinesi perdite per 3,4 miliardi di dollari.
In ambito palestinese, scrivono da Washington, la situazione determinata dalle ricadute del conflitto israelo-palestinese e dall’insicurezza che esso genera non agevola l’afflusso di capitali e l’imprenditoria: il settore privato è stagnante e il sistema economico si regge sui flussi di denaro dai donatori esteri. Negli ultimi sette anni gli investimenti privati hanno contribuito con un 15 per cento al prodotto interno lordo, contro il 25 che in genere viene registrato nei Paesi con economie di medio livello. Il manifatturiero ristagna dal 1994 e ormai contribuisce solo con un 10 per cento al pil (dato 2011, dimezzato rispetto a sette anni prima). Gli investimenti non sono stati impiegati in comparti remunerativi – come l’informatica o il turismo – ma nel commercio interno e nel settore immobiliare. Il tasso di disoccupazione è così rimasto elevato (22 per cento) e gli occupati sono in buona misura dipendenti pubblici.
È vero che da qualche anno a questa parte l’economia palestinese registra una crescita, determinata dal sostegno finanziario estero, da qualche alleggerimento delle restrizioni israeliane imposte durante la seconda intifada (2000-2004) e dalle riforme introdotte dal governo dell’Autonomia. Bisogna però anche osservare che quando, nel 2012, il sostegno internazionale si è dimezzato, anche il tasso di crescita del pil palestinese è sceso dal 9 per cento annuo del periodo 2008-2011 al 5,9 del 2012. Quest’anno cala ancora drasticamente: siamo all’1,9 nel primo semestre (e nella Striscia siamo in fase depressiva, segnalata da un – 0,1 per cento).
La libertà di autogestione dei palestinesi all’interno dell’Area C consentirebbe di sviluppare imprese in vari comparti (agricoltura, cave, turismo e telecomunicazioni) e di potenziare le infrastrutture. Un simile slancio all’economia genererebbe come conseguenza un lievitare delle entrate fiscali dell’Autonomia Palestinese valutato intorno agli 800 milioni di dollari. Cifra che abbatterebbe del 50 per cento il disavanzo fiscale e ridurrebbe il fabbisogno di sostegno finanziario dall’estero, ridimensionando al contempo i tassi di povertà e di disoccupazione.
Quali i principali benefici diretti che il recente rapporto della Banca Mondiale fa derivare dall’abolizione delle restrizioni in Area C?
In agricoltura le questioni cruciali sono l’accesso alle terre fertili e alle sorgenti d’acqua per irrigarle. I coloni israeliani esercitano il controllo su 187 mila dunum di terreno (il dunum è un’unità di misura che equivale a 1.000 metri quadrati, e dunque parliamo di 18.700 ettari). In Area C ne restano altri 326.400 (oltre 32 mila ettari) per irrigare i quali servono 189 milioni di metri cubi d’acqua ogni anno (gli accordi di Oslo ne assegnano ai palestinesi 138,5 pari al 20 per cento delle risorse disponibili stimate). Con l’irrigazione delle aree finora indisponibili e lo sfruttamento delle risorse forestali, l’economia palestinese potrebbe arricchirsi per un totale di 704 milioni di dollari (pari al 7 per cento del pil 2011).
Il Mar Morto abbonda di minerali, soprattutto ampi giacimenti di potassa e bromo. Israele e Giordania già sfruttano queste risorse ricavando dalla vendita 4,2 miliardi di dollari ogni anno. Sulla scorta di questo dato si calcola che i palestinesi potrebbero trarne profitti per 918 milioni di dollari all’anno (9 per cento del pil 2011), una somma equivalente al totale dell’attuale comparto manifatturiero palestinese.
Già attualmente la prima voce di esportazione nell’economia palestinese deriva dall’attività delle cave da cui si estrae la pietra chiara tipica di tutti gli edifici di Gerusalemme. Lo sfruttamento dei 20 mila dunum di superficie disponibile in Area C consentirebbe un incremento economico di altri 241 milioni di dollari (2 per cento del pil). Stima prudenziale che tiene conto anche delle questioni legate alla sostenibilità ambientale.
In Cisgiordania le Aree A e B sono già densamente abitate e l’edilizia è alla ricerca di nuove superfici edificabili, disponibili appunto in Area C. Oggi, secondo le analisi dell’Ufficio Onu per il coordinamento nelle questioni umanitarie (Ocha), i palestinesi possono costruire solo su un 6 per cento dell’Area C. Tra il 2000 e il 2007 appena 6 richieste di autorizzazione su 100 sono state accolte dalle autorità israeliane. E parliamo non soltanto di abitazioni, ma anche di infrastrutture (strade, cisterne, impianti di trattamento rifiuti ecc.), impianti industriali e vie di comunicazione con i centri in Area A e B. Solo limitandosi al settore privato (edifici commerciali e residenziali) la Banca Mondiale stima che i palestinesi potrebbero creare un valore aggiunto annuo di 239 milioni di dollari (all’incirca un altro 2 per cento del pil).
Il turismo in Palestina è il comparto che forse più di ogni altro risente delle restrizioni alla libertà di accesso e di impresa in Area C, soprattutto se consideriamo la sponda occidentale del Mar Morto. La Banca Mondiale ipotizza che i palestinesi potrebbero svilupparvi il settore alberghiero, analogamente a quanto ha già fatto Israele. Sarebbero altri 126 milioni di dollari (1 per cento del pil), che costituirebbero oltretutto un volano per altre iniziative legate all’indotto.
Ultimo versante analizzato dal rapporto è quello delle telecomunicazioni. In Area C è impossibile ai palestinesi installare torri per le antenne o posare cavi per le linee Adsl. Possono inoltre usufruire solo di frequenze 2G (per la telefonia cellulare di seconda generazione), ma non di quelle 3G (la terza generazione, già a disposizione degli israeliani). Ne conseguono alti costi gestionali e una copertura del territorio non ottimale. Il che rende le imprese palestinesi non competitive anche solo rispetto alle concorrenti israeliane dislocate in Area C. Anche qui la liberalizzazione consentirebbe una crescita del pil palestinese: si parla di altri 48 milioni di dollari.