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Al Cairo il militarismo non tramonta

di Elisa Ferrero
21 ottobre 2013
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Sarebbero nove milioni le firme raccolte finora nella campagna per sostenere la candidatura del generale Abdel Fattah el-Sisi alle future elezioni presidenziali. La febbre militar-nazionalista, in Egitto, non accenna a diminuire, anche se el-Sisi non ha mai annunciato di volersi candidare alla guida del Paese. L’élite politica che nel 2012-2013 aveva rappresentato l’opposizione al governo Morsi non sembra intenzionata a costruire una reale alternativa agli islamisti e ai militari.


Sarebbero nove milioni le firme raccolte finora nella campagna per sostenere la candidatura del generale Abdel Fattah el-Sisi alle future elezioni presidenziali. La febbre militar-nazionalista, in Egitto, non accenna a diminuire, anche se el-Sisi, dal canto suo, non ha mai annunciato di volersi candidare alla guida del Paese. L’élite politica che nel 2012-2013 aveva rappresentato l’opposizione al governo Morsi non sembra intenzionata, nemmeno questa volta, a costruire una reale alternativa agli islamisti e ai militari, sfruttando la perdita di popolarità dei primi e la forza del grande movimento popolare del 30 giugno 2013 che ha portato alla loro caduta. Di fronte all’ascesa della stella del generale el-Sisi, la classe politica non islamista (rappresentata, fra gli altri, da Amr Moussa e Hamdeen Sabbahi) sta abdicando ancora una volta da quel ruolo di cui la società civile egiziana avrebbe oggi più bisogno che mai: un fronte civile (né militare, né islamista), pluralista, che incarni le varie anime dell’Egitto, ma che sappia anche trovare l’unità necessaria per un’azione riformatrice dello Stato in senso realmente democratico. Quest’élite, nella maggioranza dei casi, sembra invece ben lieta di delegare ai militari l’intera responsabilità di condurre il Paese attraverso una delle fasi più delicate della sua storia, appoggiando, più o meno pubblicamente, la candidatura del generale el-Sisi.

Tuttavia, il sostegno ai militari è meno omogeneo di quanto sembri. Paradossalmente, è stato lo stesso generale el-Sisi ad ammetterlo. L’ha fatto nel video di una riunione fra alti gradi dell’esercito, trafugato da fonti ignote e recentemente consegnato alla Rssd, network di notizie della Fratellanza Musulmana. Nel video, che nelle intenzioni degli islamisti doveva dimostrare la premeditazione del golpe militare, il generale el-Sisi risponde a un colonnello che si lamenta della troppa libertà con cui l’informazione criticherebbe l’esercito, sottolineando come le cose siano cambiate dopo la rivoluzione del 2011 e come anche i militari, ora, siano sottoposti allo scrutinio pubblico. El-Sisi sa, dunque, che gli egiziani non firmano assegni in bianco a nessuno ormai. Forse proprio per questo motivo l’idea di candidarsi a una carica così in vista come la presidenza della Repubblica non lo alletta molto.

Un altro segnale che il sostegno ai militari non si traduce in un’omogenea acriticità nei loro confronti è la lotta che sta avvenendo all’interno dell’Assemblea costituente dei Cinquanta e che ne sta rallentando i lavori. L’oggetto del contendere sono i privilegi dell’esercito, in primo luogo la segretezza del bilancio militare e la prerogativa di scegliere il ministero della Difesa. Uno dei «padri costituenti», Mohammed Ghoneim, ha proposto la settimana scorsa di sottoporre le attività economiche dei militari (si stima che un terzo dell’economia del Paese sia in mano all’esercito) alla legge civile comune, facendo pagare loro le tasse sui profitti come qualunque altro imprenditore. Questa proposta, naturalmente, ha acceso un grosso dibattito che è tuttora in corso.

Pertanto, se si escludono i fan scatenati del generale el-Sisi, e la debole classe politica non islamista, c’è ancora la volontà di ridimensionare l’esercito. Tuttavia, esiste anche la seria consapevolezza che per farlo occorre un’enorme cautela in questa fase storica, perché è necessario individuare quello stretto passaggio situato fra l’arrendevole subordinazione alla leadership dei generali e l’opposizione totale, a testa bassa, senza compromessi, che mira all’immediato smantellamento dello Stato militarizzato. La rivoluzione egiziana, infatti, si ritrova a combattere su due fronti in questo momento: l’autoritarismo di ritorno del regime di Hosni Mubarak e l’autoritarismo islamista con le sue degenerazioni di stampo terroristico. I Fratelli Musulmani, in particolare, scopertisi improvvisamente anti-militari dopo anni di corteggiamento dei generali, ora stanno tentando di delegittimare l’esercito in tutti i modi, invocando anche, in taluni casi, l’ammutinamento degli ufficiali dei ranghi inferiori (ciò che alcuni definiscono come lo scenario siriano). In questa situazione delicatissima, nella quale continuano anche gli attentati e le battaglie in Sinai, si capisce la prudenza dominante nell’affrontare la “questione militare”, anche fra personalità illustri di ogni ambito e intellettuali che militaristi non sono mai stati (per esempio gli scrittori, noti anche in Occidente, Alaa al-Aswani e Sonallah Ibrahim).

Non si deve dimenticare, infine, la variegatissima piazza egiziana che, dal 2011 in poi, è sempre stata il vero motore di ogni rivolgimento politico. Un piccolo esempio del suo costante monitoraggio si è avuto in occasione dell’Eid al-adha, o festa del sacrificio, quando qualcuno, sulla via della nota località balneare di Ayn Sokhna, ha scoperto con grande sdegno due poster giganti del generale el-Sisi, in puro stile dittatoriale, appesi in bella mostra alle pareti di un casello autostradale. Le fotografie dei poster sono subito circolate su tutti i social network, suscitando un’ondata d’indignazione e, il giorno successivo, i manifesti sono spariti. C’è chi sostiene che fosse tutta una bufala e che i poster, in realtà, non fossero mai esistiti. L’indignazione che è seguita, tuttavia, non è stata falsa.

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