L’ultimo volo dei falasha
È iniziata nel lontano 1984 con l’Operazione Mosé. E, a meno di ripensamenti dell’ultima ora, si conclude oggi l’aliyah degli «ebrei dalla faccia nera». Stiamo parlando degli etiopi falasha, che nel corso di quasi un trentennio, sono diventati – vantando le loro origini ebraiche – cittadini dello Stato d’Israele. Non senza dibattiti, polemiche ed episodi di razzismo.
È iniziata nel lontano 1984 con l’Operazione Mosé. E, a meno di ripensamenti dell’ultima ora, si conclude oggi l’aliyah degli «ebrei dalla faccia nera». Stiamo parlando dei falasha, che nel corso di quasi un trentennio, sono diventati – vantando le loro origini ebraiche – cittadini dello Stato d’Israele. «È la fine di una saga – ha scritto il Jerusalem Post – che ha coinvolto decine di migliaia di uomini, donne e bambini». L’ultimo trasferimento vedrà protagonisti 400 falasha mura. Poi più nulla. La comunità israeliana di origine etiope (che vanta tra le sue fila Miss Israel 2013, la modella Yityish Aynaw) è già sul piede di guerra e minaccia manifestazioni davanti alla residenza del primo ministro Benjamin Netanyahu. Sarebbero ancora molti, secondo gli attivisti etiopi, i falasha ebrei ancora in attesa dell’agognato trasferimento in Israele. Ma per loro, sembra, quel confine lontano non dovrà più essere superato, men che meno con i comodi e veloci aerei dell’aviazione israeliana.
Per sgombrare il campo da ogni equivoco, sembra che l’Agenzia ebraica abbia già smantellato il centro di smistamento di Gondar, compresa la scuola che ospitava 2.500 piccoli ebrei falasha, in attesa di diventare cittadini israeliani a tutti gli effetti.
La vicenda dei falasha è di quelle che agitano l’opinione pubblica, e la vita politica, israeliana da lungo tempo. L’esodo si sarebbe già dovuto concludere nel 2007, ma poi qualcosa è andato storto. Ultimamente, anche su pressione dell’ex rabbino capo sefardita di Israele Shlomo Amar, era stato varato un piano triennale per permettere agli ultimi falasha di godere della Legge del ritorno. Ed era stata compilata una lista di «aventi diritto»: 7.864 su 8.700 richiedenti. Un flusso regolato in maniera costante, al ritmo di 200 ingressi al mese. Scaduto il triennio i campi di transito sarebbero stati restituiti alla municipalità di Gondar. Cosa che è puntualmente avvenuta.
Stessa sorte toccherà al campo di raccolta di Addis Abeba, dove i volontari dell’American Association for Ethiopian Jews (Aaej) hanno insegnato fino a ieri ai falasha l’ebraico e il rispetto per le regole rabbiniche.
La decisione del governo israeliano di terminare il programma di «rimpatrio» dei falasha si inquadra anche nel contesto di crisi che sta toccando il Paese. In più occasioni, negli anni scorsi, i rappresentanti dei ministeri economici, dei servizi sociali e dell’immigrazione avevano fatto presente il notevolissimo impatto sul bilancio e sui servizi di questa nuova ondata d’immigrati.
Ancora oggi in Israele circa 50 mila falasha, su una popolazione intorno ai 120 mila, sono assistiti dallo Stato. L’integrazione si è rivelata difficile per una popolazione abituata a vivere in un mondo diverso e lontano. Così la loro presenza, anche all’interno della variegata e multiforme realtà dell’Israele contemporaneo, alla fine è risulta problematica. Con veri e propri episodi di discriminazione e razzismo nei loro confronti da parte della maggioranza ebraica di pelle bianca, per la quale questi olim d’Africa sono alla fine «intrusi», come indica appunto il termine falasha nella lingua dell’altopiano abissino.
(Twitter: @caffulli)