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El Baradei e la terza piazza

di Elisa Ferrero
12 agosto 2013
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Nelle ultime settimane, Mohammed el Baradei è tornato ad essere bersaglio di strali incrociati per aver sostenuto che si debba trovare una soluzione politica alla crisi attuale, aprendo un confronto con i Fratelli Musulmani, senza ricorrere né alla loro demonizzazione, né alla violenza indiscriminata per sgomberare i loro sit-in. Posizioni simili potrebbero offrire un decisivo contributo per far uscire l’Egitto dal tunnel. Ce la faranno?


Nelle ultime settimane, Mohammed el Baradei è tornato ad essere bersaglio di strali incrociati. Non è una novità per l’ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e premio Nobel per la pace 2005. Dallo scoppio della rivoluzione nel 2011 (e in realtà anche prima, quando al Cairo Hosni Mubarak era ancora presidente), è stato sempre sottoposto a feroci campagne mediatiche di critica e diffamazione, da parte sia del fronte islamista, sia del fronte opposto.

Questa volta, a far scattare la nuova ondata di attacchi sono state alcune sue importanti prese di posizione. Naturalmente, Fratelli Musulmani, sostenitori del deposto Mohammed Morsi e parte della sinistra egiziana sono furibondi con lui per aver avallato quel che essi definiscono un golpe militare, ma anche nel resto del panorama politico, e fra la gente comune, c’è scontento nei suoi confronti. La ragione è che El Baradei, come ha spiegato lui stesso in due recenti interviste al Washington Post e al canale televisivo al-Hayat, sostiene che si debba trovare una soluzione politica alla crisi attuale, aprendo un confronto con i Fratelli Musulmani, senza ricorrere né alla loro demonizzazione, né alla violenza indiscriminata per sgomberare i loro sit-in.

Al tempo stesso, tuttavia, el Baradei afferma con uguale determinazione che è necessario portare a processo tutti coloro (Morsi incluso, se sarà il caso) che hanno commesso reati, specie chi si è reso colpevole d’incitamento alla violenza e la cui collusione con gruppi terroristici sia stata provata. Questa relativa disponibilità nei confronti dei Fratelli Musulmani non è piaciuta alla maggioranza della popolazione, che non perdona i loro passati soprusi al governo, gli episodi documentati di tortura dei quali si sono macchiati durante i sit-in e i continui episodi di violenza nei confronti dei cristiani in ogni angolo del Paese. L’opinione più diffusa è che si debba farla finita in fretta con i sit-in della Fratellanza.

Nelle interviste già citate, el Baradei ha inoltre lanciato un messaggio in codice ai nostalgici di Mubarak e a chi spera in un ritorno allo status quo del 2010, o in una completa presa del potere da parte dell’esercito: ha sottolineato che la rivolta del 30 giugno 2013 non è stata altro che un aggiustamento di rotta di quella del 25 gennaio 2011, non una controrivoluzione. Di conseguenza, el Baradei sta ora subendo pesanti attacchi anche da parte del vecchio establishment mubarakiano.

El Baradei si trova in una posizione difficile all’interno dell’alleanza di governo, ma la sua scelta di «sporcarsi le mani», accettando un incarico di responsabilità ai vertici dello Stato, dopo averlo rifiutato così tante volte in passato, è il segnale sia dell’estrema difficoltà del momento, sia della concreta speranza di riportare il Paese su un percorso di reale democratizzazione. El Baradei, infatti, non ha mai mutato opinione sulla necessità di scrivere, prima di ogni altra cosa, la Costituzione del Paese, per definire chiaramente la divisione dei poteri fra i vari organi dello Stato prima di recarsi alle urne. Quando si accorse, nel 2011, che le regole del gioco erano truccate, grazie all’alleanza fra giunta militare e islamisti, si ritirò coerentemente dalla corsa presidenziale, decidendo di dedicarsi alla preparazione dei giovani in vista di una loro futura leadership politica.

E ora che la road map è stata riformulata, dando finalmente la precedenza alla Costituzione – e affidando il governo ai civili, eccetto che per le questioni riguardanti la sicurezza nazionale, in mano a un Consiglio di difesa a maggioranza militare – el Baradei ha coerentemente assunto un incarico di responsabilità (è vicepresidente), mettendo a rischio la sua reputazione e forse la sua stessa vita.

La presenza di el Baradei nell’alleanza di governo – se riuscirà a resistere – è dunque di fondamentale importanza, non solo per ricucire i rapporti con gli attori internazionali insospettiti dal ruolo dei militari, non solo per frenare lo scatenarsi della violenza della polizia, ma anche per il permanere, in una posizione influente, di un discorso democratico che purtroppo non ha ancora molti seguaci, né molto spazio in Egitto. Il discorso di el Baradei, infatti, è lontano sia dal fanatismo dominante nelle file islamiste, sia dal machismo di certi discorsi nazionalisti, sia dall’ideologia di parte della sinistra. La sua stessa persona è in qualche modo atipica nel panorama pubblico egiziano, con il suo atteggiamento mite, la sua voce debole e la sua nota ritrosia al contatto con le masse, cosa che gli è spesso valsa l’accusa di non essere in grado di connettersi con la forte emotività egiziana.

I giornali occidentali hanno mostrato grande interesse per la cosiddetta «terza piazza», un gruppo formato principalmente da attivisti, blogger e militanti di sinistra che affermano di essere sia contro i Fratelli Musulmani, sia contro i militari. Tuttavia, si tratta finora di poche centinaia di persone, il cui merito maggiore è la funzione di giusta vigilanza rispetto ai soprusi di entrambe le parti in causa, ma oltre a questa contrapposizione totale la «terza piazza» non sa fornire vie concrete per uscire dalla complicatissima crisi attuale. Anche il loro, in fondo, è un discorso esclusivista, che comunque suscita poche simpatie fra gli egiziani.

A me pare, invece, che la vera terza piazza, o terza via, potenzialmente in grado di dare un decisivo contributo per far uscire l’Egitto dal tunnel, stia prendendo forma proprio in coloro che si sentono rappresentati da el Baradei, fedeli ad alcuni chiari, basilari principi democratici, ma capaci anche di riconoscere la peculiarità della realtà egiziana, con la quale è inevitabile scendere a patti se la si vuole cambiare. Ce la faranno?

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