Si torna a parlare del processo di pace tra israeliani e palestinesi che - su sollecitazione del segretario di Stato americano John Kerry - dovrebbe ripartire a giorni, con un incontro a Washington tra le due delegazioni. Intanto però - aspettando che ciascuno metta sul serio le carte in tavola - è più interessante tornare a parlare degli israeliani e dei palestinesi che, indipendentemente dagli sviluppi politici, continuano comunque ad andare oltre le barriere per costruire qualcosa insieme...
Si parla molto in questi giorni del processo di pace tra israeliani e palestinesi che – su sollecitazione del segretario di Stato americano John Kerry – dovrebbe ripartire a giorni, con un incontro a Washington tra le due delegazioni. Ci si divide tra chi vede soprattutto il bicchiere mezzo pieno (il fatto che le due delegazioni tornino a parlarsi) e chi si concentra su quello mezzo vuoto (il fatto che non vi siano passi avanti sostanziali nelle posizioni con cui si presentano al tavolo).
Vedremo chi avrà avuto ragione. Intanto però – aspettando che ciascuno metta sul serio le carte in tavola – è più interessante tornare a parlare degli israeliani e dei palestinesi che, indipendentemente dagli sviluppi politici, continuano comunque ad andare oltre le barriere per costruire qualcosa insieme. L’abbiamo raccontato tante altre volte in questa rubrica, ma ci sembra lo stesso importante tornare a farlo ogni volta che dalle pieghe della cronaca emergono volti inediti della solidarietà, costruiti insieme da arabi ed ebrei.
È il caso ad esempio di United Hatzalah of Israel, un’associazione di pronto soccorso grazie alla quale un israeliano e un palestinese si stanno dando da fare insieme per migliorare l’assistenza medica d’emergenza anche a Gerusalemme Est, la parte abitata dagli arabi. Tutto è nato nel 2007 dalla collaborazione tra Murad Alyan, un infermiere musulmano, ed Eli Beer, un ebreo che ha messo in piedi una rete di prima assistenza medica basata sulle reti di vicinato. Una modalità di soccorso più immediata rispetto alle ambulanze del Magen David Adom (lo Scudo di Davide rosso, che è in pratica la Croce rossa israeliana). La scommessa di Alyan è stata di portarlo anche a Gerusalemme Est. E grazie alla collaborazione con Beer e a un centinaio di volontari oggi sono riusciti a ridurre anche nella zona araba il tempo medio di attesa per il primo intervento a tre minuti.
Per questo motivo all’associazione è stata assegnata l’edizione 2013 del premio Victor Goldberg per la Pace in Medio Oriente, come racconta l’articolo del blog Israel21c che proponiamo qui sotto. «La gente pensa che la pace dipenda solo dai politici – ha commentato Alyan -. Noi invece salviamo vite al di là ogni agenda politica o opinione. E questo è ciò che può portare alla pace. Si può fare ovunque».
Le persone prima della politica. È l’idea più rivoluzionaria che esista. Ma mettere al centro le persone significa anche fare i conti con la concretezza delle sfide. Ed è l’approccio di un’altra esperienza innovativa di cui si parla in questi giorni in Israele: alla ZeZeZe Architecture Gallery di Tel Aviv è infatti in corso una mostra promossa da Saya, un gruppo di architetti che sta provando a progettare la pace. La loro sfida è prendere sul serio il negoziato e tradurlo in soluzioni tecniche che rendano più facile il compromesso sui punti nodali. Così – ad esempio – alla mostra è possibile vedere come diventerebbe la strada 60 – la storica strada che ha sempre congiunto le grandi città arabe a Gerusalemme e il muro oggi ha interrotto – se fosse ripensata come una moderna autostrada binazionale, con accessi separati tanto da Israele quanto dalla Palestina. Oppure è possibile ragionare sulle compensazioni territoriali con una mappa interattiva che permette a ciascuno di provare tracciare il suo confine.
Due storie diverse, ma accomunate dal desiderio di guardare avanti davvero. Ciò di cui questo processo di pace – iniziato più per forza di inerzia che per convinzione – oggi ha maggiormente bisogno.
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