Per il patriarca cattolico di Alessandria dei copti mons. Ibrahim Isaac Sidrak, ad un anno dall’elezione del presidente Mohammed Morsi, «esiste il serio rischio che il Paese sprofondi nella guerra civile», dopo che il movimento Tamarrud ha vinto la sfida di raccogliere oltre 15 milioni di firme per sfiduciare Morsi.
(Roma) – In un colloquio con Terrasanta.net dopo le riunioni di alcuni giorni fa in Vaticano sulla situazione in Egitto, il patriarca copto cattolico Ibrahim Isaac Sidrak, subentrato lo scorso 15 gennaio al cardinale Antonios Naguib (dimessosi per motivi di salute), ha sottolineato di aver chiesto alle agenzie umanitarie cattoliche «non aiuti materiali ma un sostegno nella formazione di una nuova classe dirigente egiziana, consentendo alla Chiesa locale e ai laici copti di avere un ruolo incisivo e un’influenza vera nella società». Parlando alla vigilia delle manifestazioni del 30 giugno mons. Sidrak ha detto di temere il clima di scontro che si avverte a causa della povertà diffusa e della crescente islamizzazione del Paese.
«Io spero che non scoppi una guerra civile, ma il rischio c’è, perché la situazione è molto confusa – ha affermato il presule –. Il fatto è che la rivoluzione lanciata dai giovani ha suscitato tante speranze, tante ambizioni di riuscire a dare una vita decente agli egiziani, ma a distanza di un anno dall’elezione del presidente Mohammed Morsi vediamo il Paese andare all’indietro, anziché avanti. Certamente c’è più libertà rispetto all’era di Hosni Mubarak, maggiore apertura nell’esprimere critiche, ma l’inesperienza dei leader politici ed il tentativo da parte dei Fratelli Musulmani di piazzare i lori uomini in ogni angolo delle istituzioni non elettive, dalla magistratura ai funzionari delle amministrazioni locali, hanno provocato una contrapposizione forte, un crescente sentimento anti-islamista, e la sfiducia del popolo nel vedere che i Fratelli Musulmani promettono una cosa e ne fanno un’altra…».
Secondo il patriarca «in questo clima di insicurezza e di instabilità i cristiani patiscono esattamente come i musulmani». «C’è da dire – osserva Sidrak – che il loro approccio alla vita pubblica è cambiato: sotto il regime di Mubarak i copti erano più sottomessi, vivevano sotto l’egida del patriarcato copto ortodosso che non prendeva posizione contro Mubarak. Adesso la situazione è diversa: non hanno più paura, non c’è più l’obbedienza cieca di prima. Con la Rivoluzione hanno scoperto la libertà, e intendono lottare con il resto della popolazione per avere una vita degna di essere vissuta, una vita degna dell’uomo. C’è una certa libertà che si va sviluppando, cristiani e musulmani cercano di costruire quella cittadinanza per la quale hanno lottato fianco a fianco durante la rivoluzione».
Il patriarca Sidrak non crede che sia iniziata una persecuzione aperta contro i cristiani: resta piuttosto «una discriminazione nella prassi». «Basti pensare ai mille soprusi quotidiani che i copti subiscono in quanto copti, dalla richiesta di un banale documento alla selezione del personale per un impiego… Le richieste vengono bloccate semplicemente perché in moschea gli impiegati hanno sentito dire che è meglio contrastare la presenza dei copti, nonostante essi siano autentici egiziani a tutti gli effetti».
Le sfide maggiori che l’Egitto oggi attraversa sono tre: «insicurezza, povertà e ignoranza». «Gli egiziani vogliono stabilità e un lavoro per i loro figli. Come leader religiosi dei copti, la nostra difficoltà è che non possiamo convincere a restare tante famiglie che legittimamente cercano un futuro migliore». Tuttavia, rimarca mons. Sidrak facendo eco al patriarca dei caldeo, «non siamo venuti a Roma non per chiedere soldi o aiuti materiali: siamo partners delle agenzie cattoliche. Come patriarca, chiedo a queste agenzie di essere coscienti di quello che succede e di aiutare la Chiesa locale ad avere un ruolo incisivo, a essere efficace per avere un’influenza vera nella società. Nessuno ci sostituisce, sono i cristiani egiziani a dover lavorare per il loro Paese. Oggi sarebbero necessari dei corsi per formare la classe dirigente, preparare un gruppo di lavoro: non disdegniamo l’aiuto economico, ma quel che è più necessario è imparare a fare. Le sfide della povertà, della disoccupazione, dell’istruzione sono grandi: abbiamo 15 milioni di analfabeti, abbiamo bisogno di formazione per costruire quella vita degna e quel futuro che tutti cerchiamo».