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Risvolti bellici, in Siria cala la natalità

di Giuseppe Caffulli
31 maggio 2013
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Sembra che, incontrando gli operatori umanitari, le donne siriane manifestino una principale preoccupazione: quella di non rimanere incinte e di non avere figli. Ed è una preoccupazione comprensibile, nel contesto di un conflitto che rischia di complicarsi ogni giorno di più e dove ormai le vittime si contano a decine di migliaia. Paradossalmente, qualche segnale in controtendenza arriva da chi vive nei campi profughi oltre confine.


Sembra che, incontrando gli operatori umanitari, le donne siriane manifestino una principale preoccupazione: quella di non rimanere incinte e di non avere figli. Ed è una preoccupazione comprensibile, nel contesto di un conflitto che rischia di complicarsi ogni giorno di più e dove ormai le vittime si contano a decine di migliaia.

Secondo le stime, le potenziali nascite del 2013 potrebbero essere 250 mila, ma nessuno in realtà è in grado di sapere se andrà veramente in questo modo. I demografi pensano che la popolazione siriana crescerà appena dello 0.15 per cento nell’anno corrente, con 23 nuove nascite ogni mille abitanti. Insomma: crescita zero.

In un Paese distrutto dalla guerra non è facile mettere al mondo un figlio. I servizi di assistenza alla gravidanza non esistono più, l’assistenza neonatale è sparita con gli ospedali (quelli in funzione sono ormai solo presidi sanitari d’emergenza che funzionano come possono). Delle pediatrie, meglio non parlarne. Buona parte dei medici, poi, ha lasciato il Paese. Mettere al mondo un figlio, in questa situazione, per tante donne è un azzardo troppo grande (oltre che una bocca in più da sfamare).

In Siria, prima dello scoppio della tragedia, nella primavera 2011, il 96 per cento dei parti, sia a casa che in ospedale, era seguito da ostetriche o levatrici. Oggi tutto questo non esiste più. Con la conseguenza che i casi di morte durante il parto (del neonato e/o della madre) sono in forte rialzo. Aumentati di cinque volte anche i parti cesarei programmati: chi deve partorire non può aspettare le doglie, con il rischio di dover correre in ospedale sotto i bombardamenti o attraversando zone rese insicure dal conflitto armato. In crescita anche gli aborti spontanei causati dallo stress e dai traumi psicologici dovuti alla guerra.

Paradossalmente, qualche segnale in controtendenza arriva da chi vive nei campi profughi. Nonostante la precarietà sia una costante anche per questa gente, l’atteggiamento nei confronti di una nuova vita sembra differente. È pur vero che le donne che vivono sotto le tende ritengono che il campo non sia il posto migliore per avere un figlio (ci sono addirittura organizzazioni che fanno campagne tra i profughi affinché si rimandino le nascite al rientro in Siria, se mai avverrà), ma una parte consistente ritiene viceversa che sia un dovere «compensare» con nuove vite le morti che il Paese ha conosciuto in questi due anni di guerra.

Così non è raro sentire, tra le tende, vagiti che schiudono nuovi respiri al mondo (solo nel campo di Zaatari, la media è di 90 nascite al giorno). Questi bimbi portano per lo più il nome di parenti o amici morti al di là del confine, dove il conflitto quotidianamente sparge sangue d’innocenti. Perché il loro compito sarà quello di evitare che una nazione sparisca e di contribuire a non dimenticare l’orrore di questi tempi.

(Twitter: @caffulli)

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