Pochi giorni orsono è stata riconfermata una legge israeliana che complica la vita a migliaia di famiglie palestinesi, impedendo ai coniugi che abitano in Cisgiordania e Gaza e sposati con palestinesi residenti in Israele di entrare nel Paese per vivervi una normale vita di coppia. È una delle sfaccettature di un conflitto che è demografico, prima ancora che militare.
(Gerusalemme) – Lei vestita di bianco con il bouquet tra le mani, lui in grigio con la cravatta azzurra. Il 9 marzo scorso un gruppo di attivisti palestinesi ha portato sulle spalle un giovane, prossimo a sposarsi con una ragazza che vive al di là del Muro di Separazione. Lui, Hazim, è di Abu Dis, villaggio palestinese vicino Ramallah; lei è di Nazaret, Stato di Israele. Si sono incontrati al check-point di Hizma, che divide la Cisgiordania dal resto della Palestina storica. Gli ospiti ballavano e cantavano, sventolando bandiere palestinesi nel giorno del loro matrimonio.
Ma l’amore non è stato coronato: i soldati israeliani hanno disperso i circa 200 partecipanti alla singolare cerimonia nuziale, lanciando gas lacrimogeni e bombe sonore. Era un matrimonio-protesta quello di Hazim: mostrare al mondo gli effetti delle leggi israeliane sulla vita quotidiana del popolo palestinese. Ad organizzare la manifestazione sono stati i ragazzi di Love in the time of apartheid. «L’amore al tempo dell’apartheid» è il nome con il quale un gruppo di attivisti palestinesi ha battezzato la campagna contro la legge di riunificazione familiare reiterata dal governo israeliano lo scorso 22 aprile.
Una legge controversa che da undici anni pesa sulle giovani coppie palestinesi separate dal Muro. Ratificata per la prima volta nel 2003, è stata costantemente riapprovata dal parlamento israeliano, ultima volta in ordine di tempo pochi giorni fa. La normativa nega a decine di migliaia di famiglie palestinesi il diritto di vivere sotto lo stesso tetto. Come? Impedendo ai coniugi residenti in Cisgiordania e Gaza e sposati con palestinesi residenti in Israele di entrare nel Paese, per vivere una vita normale, nella stessa casa.
In mezzo resta il Muro di separazione, impossibile da varcare anche solo per amore. A battersi contro la legge sulla riunificazione familiare è da mesi un gruppo di attivisti palestinesi, sulla base delle numerose risoluzioni e convenzioni firmate dalle Nazioni Unite che vietano simili normative. Tra questi, il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani che dal 2003 ad oggi ha più volte chiesto al governo israeliano di stralciare una legge che nega il basilare diritto dei coniugi alla coabitazione.
A farne le spese sono 130 mila coppie palestinesi alle quali restano ben poche opzioni: restare divise o emigrare. Tenendo a mente che l’emigrazione si trasformerà in una trappola: una volta trasferitosi, il palestinese israeliano perderà tutti i diritti di residenza e cittadinanza in Israele, nella sua terra. Per questo non sono pochi quelli che decidono di vivere separati: uno di qua e uno di là, uno con in mano la carta d’identità verde dalla Cisgiordania e l’altro quella blu israeliana. Una necessità imposta dalle normative interne israeliane: nel caso la coppia abbia un bambino, questi potrà ricevere il passaporto israeliano solo se effettivamente residente all’interno dello Stato di Israele e potrà accedere a tutti i benefici, educativi, medici e sociali che alle comunità palestinesi che vivono in Cisgiordania sono preclusi.
La campagna Love in the time of apartheid prova a fare pressioni sul governo israeliano o almeno ad attirare l’attenzione su una palese forma di discriminazione: la stessa legge non si applica agli ebrei cittadini israeliani, ma solo agli arabi. E se un ebreo cittadino di un qualsiasi Stato del mondo ha diritto a diventare cittadino israeliano in qualsiasi momento della sua vita sotto l’ombrello della Legge del ritorno, a un palestinese rimasto al di là del Muro e nato su questa terra tale diritto è precluso.
«La nostra campagna è nata per combattere nello specifico la legge sulla riunificazione familiare – ci spiega Najwan Berekdar, palestinese di Nazaret e portavoce di Love in the time of apartheid –. Ma più in generale intendiamo sfidare le politiche israeliane contro i palestinesi. Questa è solo un’altra legge, che va ad aggiungersi alle oltre 60 normative discriminatorie all’interno dello Stato di Israele. È una legge razzista perché prende di mira solo i cittadini palestinesi e ha come obiettivo quello di allargare la divisione con i Territori Occupati, una divisione che è da tempo reale, concreta, a causa di check-point militari e muri di separazione».
Dopo il matrimonio al check-point di Hizma, i ragazzi palestinesi hanno proseguito tentando la via legale: «Abbiamo saputo che la Knesset avrebbe riapprovato la legge solo due giorni prima del voto. Abbiamo manifestato di fronte alla sede del parlamento e presentato petizioni. Ma non ci fermiamo: abbiamo in programma una serie di altre iniziative per attirare l’attenzione della comunità internazionale su una legge vergognosa».
«Dietro una legge come questa – conclude Najwan – c’è una battaglia demografia. Israele, per continuare a potersi definire uno Stato ebraico, deve controllare i livelli di crescita della popolazione palestinese, deve mantenerli il più bassi possibile. Non solo: l’altro obiettivo israeliano è quello di dividerci: separandoci in enclavi chiuse, senza alcun tipo di contatto, l’identità palestinese finirà per scomparire. Come può un popolo definirsi uno e unito, se viene disperso in mille diversi rivoli ed etichettato con quattro diverse carte d’identità?».