Qualche settimana fa sono stato contattato dal responsabile vendite di una ditta di Lisbona che commercia prodotti alimentari nei Paesi arabi. Mi informava che un grosso carico di un nuovo prodotto, una carne di tacchino rigorosamente halal, è stato rispedito indietro dalle autorità di un Paese del Golfo, che si sono sentite oltraggiate. L’offesa in questione, si è poi saputo, riguardava proprio la parola «novità», resa sulle scatolette con il termine arabo bidaa. «Letteralmente non abbiamo commesso errori – scriveva sconsolato il nostro amico – ma sembra che vi abbiano colto qualcosa di intollarabile». Bidaa – gli spiego – significa certamente «novità» in arabo; solo che, nell’accezione islamica, viene a significare «eresia», in quanto le innovazioni in materia di fede sono considerate contrarie alla tradizione del Profeta.
Questo aneddoto (la cui soluzione mi è valsa una scorta di scatolette di tacchino per i prossimi due anni!) illustra quanti malintesi sugli stessi concetti possano ostacolare non solo il dialogo tra cristianesimo e Islam, ma anche i semplici rapporti sociali tra le popolazioni del Mediterraneo.
Nel primo caso, molti esperti ritengono ormai urgente sedersi prima a tavolino per precisare cosa realmente si intenda per una serie di termini ricorrenti nelle dichiarazioni interreligiose. Uno di questi termini è il concetto di laicità, che molti musulmani traducono come ateismo anziché come separazione tra la sfera religiosa e quella politica. Ultimamente, in particolare negli ambienti cattolici, si è diffuso l’uso dell’espressione «laicità positiva» per indicare un’opposizione al concetto di laicismo anticlericale, ed esprimere piuttosto una neutralità dello Stato, senza inimicizia, verso il fatto religioso. Un altro malinteso, connesso al primo, riguarda il concetto di cittadinanza. Ancora oggi, nella maggior parte dei Paesi islamici, il sistema giuridico che regge la vita sociale e politica è quello basato sulla sharia, più o meno applicata, in cui la «tolleranza» nei confronti di cristiani ed ebrei si traduce nella realtà con una serie di discriminazioni che trasforma questi ultimi in cittadini di seconda classe. I cristiani che vivono oggi nei Paesi islamici non chiedono, infatti, di essere «tollerati», ma di essere riconosciuti come cittadini, con gli stessi diritti e doveri dei musulmani.
Un altro malinteso nasce dall’interpretazione del concetto di libertà religiosa. Per i musulmani, tale concetto è limitato alla libertà di celebrare il culto cristiano, mentre per i cristiani, esso include anche il diritto di cambiare religione, di potere annunciare la propria fede senza rischiare un’accusa di proselitismo, e di permettere persino a chiunque di dichiararsi ateo. Non si dovrebbe nemmeno, in nome della sharia, obbligare per esempio chiunque a digiunare durante il Ramadan, come invece avviene oggi in diversi Paesi islamici.
Queste ed altre parole fanno capire che, prima di partire da un confronto sulle questioni dogmatiche e sociali, il dialogo tra cristianesimo e Islam deve partire da un «linguaggio comune» dei diritti dell’uomo. Molti musulmani si adoperano per realizzare questo primo passo, come il grande imam di al-Azhar, Ahmed el-Tayyeb. Alla celebrazione della Pasqua ortodossa, il 5 maggio scorso, un lungo applauso è partito dai banchi dei fedeli che affollavano la cattedrale di san Marco al Cairo quando il papa copto Tawadros II ha citato il suo nome per ringraziarlo degli auguri che gli ha espresso di persona. I gesti autentici sono sempre capaci di dissipare ogni equivoco e ogni sentimento di offesa.