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L’istruzione universale, base dell’ebraismo

Manuela Borraccino
9 maggio 2013
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L’istruzione universale, base dell’ebraismo

Non furono le restrizioni, i divieti e neppure le persecuzioni a rendere gli ebrei fin dal 70 d.C. un popolo colto, diasporico, presente nelle professioni urbane redditizie e ad alta specializzazione. In questo libro, frutto di 12 anni di lavoro, due economisti lanciano una nuova interpretazione della storia ebraica.


Questo libro è stato scritto a quattro mani nel corso di 12 anni, e visitando diversi luoghi del mondo, da Maristella Botticini, docente di economia e direttore dell’Igier presso l’Università Bocconi, e di Zvi Eckstein, professore di economia presso l’Università di Tel Aviv e l’Interdisciplinary Center (Idc, Herzliya), in Israele.

Il saggio ricostruisce con una mole impressionante di fonti, documenti, libri e articoli su quindici secoli di storia quale cambiamento radicale provocò sull’ebraismo la distruzione del secondo tempio di Gerusalemme, nel 70 d.C.: tale evento infatti, che impose un cambiamento di leadership all’interno della frammentata comunità ebraica, trasformò il giudaismo da culto basato su sacrifici eseguiti nel tempio in una religione centrata sulla lettura, lo studio e l’attuazione delle regole e delle norme della Torah e del Talmud. La legge, scriveva nel primo secolo lo storico Giuseppe Flavio, ordina agli ebrei «che ai bambini si debba insegnare a leggere, e debbano imparare le leggi e gli atti dei loro antenati, così che possano imitarne i comportamenti, e conoscendo a fondo le leggi, non possano trasgredirle né avere alcuna scusa per non conoscerle».

La norma religiosa sull’obbligatorietà dell’istruzione, un unicum nel mondo dell’antichità formato prevalentemente da analfabeti, era accompagnata da un fortissimo stigma sociale per chi la trasgrediva e fornì agli ebrei quello che gli economisti chiamano «un vantaggio comparato» nelle attività urbane specializzate come l’artigianato, il commercio, il cambio di valute e il prestito di denaro.

I due studiosi mostrano come durante l’apogeo della civiltà islamica – tra il Nono e il Dodicesimo secolo – l’urbanizzazione in Mesopotamia, in Nord Africa e lungo le rotte del Mediterraneo portò gli ebrei a ricavare grandi benefici pecuniari dal loro investimento nell’alfabetizzazione e nell’istruzione. Il ritorno economico che ne discendeva scoraggiava le conversioni ad altre religioni: tanto che non avvennero in quei secoli caratterizzati dall’economia mercantile – secoli che coincidono tra l’altro con l’età dell’oro della storia ebraica – i processi di assimilazione e di conversione (prima al cristianesimo, tra il Terzo e il Sesto secolo) e poi all’Islam (tra il Tredicesimo e il Quindicesimo secolo) che spiegano l’impressionante calo demografico che colpì le comunità ebraiche nella prima metà del primo millennio e subito dopo le invasioni mongole della Mesopotamia, all’inizio del Tredicesimo secolo.

Interpretando gli eventi e i dati storici attraverso la lente della teoria economica, Botticini ed Eckstein ricostruiscono con una prosa avvincente come l’alfabetizzazione e il capitale umano, incorporato alla persona e non soggetto al rischio di esproprio, incoraggiarono quella mobilità che si tradusse spesso in diaspora volontaria: per secoli gli ebrei migrarono alla ricerca di opportunità nei mestieri artigianali, nel commercio al dettaglio o a lunga distanza, nel prestito feneratizio, nelle attività bancarie e finanziarie, nella professione medica.

Lo sviluppo di reti di relazioni e contatti tra ebrei residenti in luoghi diversi e l’esistenza di istituzioni che favorivano il rispetto dei contratti e lo sviluppo del commercio (ad esempio, il Talmud, i tribunali rabbinici, i responsa) divennero la «leva» del successo economico e intellettuale del popolo ebraico. Con l’ausilio della ricerca storica e della teoria economica, i due studiosi sfatano così una serie di luoghi comuni: le restrizioni sulle attività economiche, le persecuzioni, e le espulsioni delle comunità ebraiche che cominciarono a caratterizzare la loro storia in Europa dal tardo Medioevo in poi e, a partire dalla fine del Quattordicesimo secolo, il divieto di possedere terreni furono l’effetto e non la causa della peculiare specializzazione economica degli ebrei nelle professioni più redditizie.

Così, tra i carteggi scambiati tra mercanti, intermediari, finanzieri, ebrei erranti poliglotti e di casa in ogni porto del Mediterraneo, e i responsa rabbinici sulle diverse modalità del prestito ad interesse ad ebrei, musulmani e cristiani, emerge la centralità dell’istruzione per la vita familiare ed economica ebraica. E rivivono alcune fra le figure leggendarie della cultura ebraica, da Solomon Bein Isaac universalmente noto come Rashi, vissuto nell’Undicesimo secolo, a Beniamino di Tudela che con i viaggi intrapresi nel 1165 descrisse le condizioni delle comunità ebraiche all’epoca o al suo conterraneo filosofo e rabbino Mosè Maimonide (1138-1204).

Ne esce una ricostruzione potente, ricca di riflessioni e di stimoli sull’importanza del capitale umano e dell’istruzione nella vita individuale e dei popoli. Un viaggio a ritroso nel tempo che presenta in termini fortemente positivi, quasi celebrativi, una storia che spesso viene conosciuta soprattutto per le discriminazioni, i soprusi, le violenze subite dagli ebrei nel corso di duemila anni. E che lascia ai lettori la voglia di leggere il seguito: i due autori sono già al lavoro per spiegare come la norma sull’obbligatorietà dello studio per tutti abbia influito sulla storia ebraica e mondiale dal 1492 ai giorni nostri.

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