Il numero di marzo-aprile 2013 del bimestrale Terrasanta pubblica un reportage realizzato da Anna Clementi, che si è recata nel campo profughi di Za’atari, in territorio giordano ai confini con la Siria. Un luogo in cui coabitano sofferenze e speranze di decine di migliaia di persone. Eccovi l’articolo in anteprima.
Il numero di marzo-aprile 2013 del bimestrale Terrasanta pubblica un reportage realizzato da Anna Clementi, che si è recata nel campo profughi di Za’atari, in territorio giordano ai confini con la Siria. Un luogo in cui coabitano sofferenze e speranze di decine di migliaia di persone. Eccovi l’articolo in anteprima.
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Za’atari è un luogo non-luogo sospeso tra Siria e Giordania. Un limbo di arrivi e di partenze, di gioia e di dolore, di vita, di morte e di rinascita. È la prima tappa di centinaia di migliaia di profughi che scappano dalla cruenta guerra che dilaga in Siria da quasi due anni. Un’immensa tendopoli che sorge su un infinito altopiano desertico nel nord della Giordania, a poco più di 10 chilometri dal confine siriano.
I primi ricoveri di fortuna sono stati eretti alla fine di luglio 2012, ma ormai Za’atari è una vera e propria città di tende e caravan. Le strade e le diverse aree del campo hanno già un nome, come in una qualsiasi altra città del mondo.
Nel campo di Za’atari vivono stipati oltre 50 mila profughi siriani. La maggior parte è gente che scappa dal sud del Paese, da Dar’a, da Damasco, da piccoli villaggi intorno alla capitale. Sono tutti ricercati dalle autorità siriane perché hanno preso parte alle manifestazioni contro il regime di Bashar al-Assad o perché parenti di membri dell’opposizione. «Le milizie governative sapevano che mio fratello era contro il regime – racconta un ragazzo di Dar’a che vuole restare anonimo e che chiameremo Abu Mohammad (un nome di fantasia, come del resto tutti gli altri che compaiono nel testo – ndr). Ci accoglie nel suo piccolo e freddo caravan in cui si è appena trasferito: «Ci hanno distrutto la casa, hanno sbattuto con le spalle al muro mio figlio chiedendogli dov’era suo zio, mi hanno minacciato e costretto a chiudere il negozio dove lavoravo. Non avevo altra scelta se non quella di fuggire».
C’è anche chi è scappato per cercare cure mediche. «La casa vicino alla nostra è stata bombardata, le schegge hanno ferito quattro delle mie figlie, due delle quali sono disabili dalla nascita». Fatima non ha nemmeno quarant’anni ma sembra molto più anziana. Vive nel campo da un mese e racconta la sua terribile storia con un sorriso sulle labbra. «Abbiamo dovuto trasportarle fino all’ospedale di Dar’a ma lì il nostro dramma non è finito. Ci son stati scontri tra le truppe governative e l’esercito libero siriano proprio fuori dall’ospedale e i soldati sono entrati nella clinica minacciando pazienti e medici. Siamo scappati».
Si entra nel campo di Za’atari attraverso un doppio sistema di cancelli controllati dalle autorità giordane. La strada principale è asfaltata e da lì si diramano piste in terra battuta che conducono alle tende. Dopo aver superato gli ospedali da campo gestiti da diverse organizzazioni internazionali e poco prima di arrivare alla scuola gestita dall’Unicef, ecco che, ai lati della via centrale, inizia un piccolo suq.
«Frutta fresca, pomodori, zucchine, carote», urlano i venditori invitando i clienti a comprare la loro merce. «Ogni mattina i commercianti giordani entrano a Za’atari e portano i prodotti alla gente del campo che a sua volta li rivende per le strade», spiega Abu Hassan, un rifugiato siriano che vive a Za’atari da più di cinque mesi. «Ma i prezzi qui sono molto cari e solo chi ha soldi può permettersi di comprare le merci al mercato».
Ra’ed è scappato senza riuscire a salvare nulla. Si era appena trasferito, con la moglie e i suoi 5 figli, in una casa di tre piani nelle campagne intorno a Dar’a. «Avevamo un giardino, alberi da frutto di ogni tipo, una casa grande, costruita coi risparmi di tutta una vita. Ce l’hanno distrutta, non ci è rimasto nulla. Ora dipendiamo dagli aiuti dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (l’Acnur, l’agenzia Onu che si occupa tra le altre cose della distribuzione del cibo all’interno del campo – ndr). All’inizio ci davano due pasti caldi al giorno ma non appena il numero di rifugiati ha iniziato a salire tutto è cambiato. Ora ogni due settimane riceviamo riso, pane, lenticchie, qualche scatola di tonno e poco altro. Non è sufficiente, ma non possiamo permetterci altro».
Fame, freddo e dure condizioni di vita sono le principali sfide che i rifugiati siriani devono affrontare nel campo di Za’atari. Le tende di plastica non proteggono dalle intemperie e dalle basse temperature della notte e la distribuzione degli aiuti non sempre riesce a stare al passo con l’enorme numero di arrivi giornalieri.
«Non abbiamo la bombola a gas, non abbiamo nemmeno le coperte per la notte». Rana gira per il campo in cerca di aiuto. È sconvolta, spaesata. È arrivata da pochi giorni a Za’atari e la sua tenda si trova nel cosiddetto mukheiyem sa’oudi (letteralmente il «campo saudita»), la parte più nuova di Za’atari – con tende donate appunto dall’Arabia Saudita – dove vengono sistemati i nuovi arrivati. Ogni giorno, ci mette almeno un’ora per arrivare all’ingresso del campo dove le organizzazioni internazionali distribuiscono i beni di prima necessità. «Anche oggi sono andata a vedere se potevo avere le coperte, sono stata due ore in coda ma non si è visto nulla – continua –. Di notte fa freddo, non riusciamo a dormire, i miei figli si sono già ammalati, hanno la febbre, la tosse».
Tuttavia, con il continuo aggravarsi della crisi siriana, il numero dei rifugiati che scappano verso la Giordania sta crescendo in modo esponenziale. Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Acnur (aggiornati al 31 gennaio 2013), in Giordania ci sono quasi 230 mila rifugiati, di cui almeno il 20 per cento vive a Za’atari. Nelle ultime settimane, ad esempio, c’è stata una media di 2.500 nuovi arrivi giornalieri all’interno del campo. Dopo una notte nel settore di registrazione dell’Acnur, alle famiglie viene data una tenda e alcuni beni di prima necessità. In ogni area ci sono delle cucine, dei bagni comuni e delle cisterne di acqua potabile. E man mano che un’area si riempie, vengono allestite nuove tende e nuovi caravan. Proprio come in una città: con l’aumento della popolazione, la città si espande, nascono nuovi quartieri.
Camminare nel mukheiyem sa’oudi significa incontrare persone che fino a pochi giorni prima stavano vivendo il dramma della guerra. Si vedono famiglie sedute sulle proprie valigie in attesa di una tenda; uomini che camminano disorientati senza meta; donne per strada, con volti scavati e sguardi impauriti.
«Se avessi saputo che la situazione era così terribile non sarei venuta qui», racconta Jamila, un’anziana madre scappata dalla periferia di Damasco per salvare i figli. “Mio marito è stato ucciso qualche mese fa, ora qui sono sola coi miei figli. Il più grande è disabile, ha bisogno di una sedia, ma qui non ci hanno dato nulla ed ora è disteso su un materassino al freddo. Non riesco a portarlo in bagno, non riesco nemmeno a cambiargli i vestiti. Che ne sarà di noi?».
Anche Malak è ancora sconvolta e non vuole abituarsi all’idea di vivere in una tenda. «A Damasco avevo una casa, un lavoro, una bella famiglia. Qui non ho più nulla, ho perso tutto. Ho paura, paura di morire soffocata dentro una tenda, com’è successo qualche giorno fa quando un fornello ha dato fuoco a un gruppo di tende e una bambina di due anni è morta ustionata».
Diverso invece è l’umore di coloro che ormai hanno trascorso diversi mesi all’interno del campo. La guerra è un ricordo più lontano e nella precaria situazione di Za’atari cercano di trovare la loro normalità rendendo meno dure le condizioni di vita. C’è chi si è fatto un allacciamento elettrico; chi si è comprato la televisione, la lavatrice, il fornello per cucinare; chi ha trovato un lavoro all’interno del campo; chi ha costruito un forno per fare il pane; e chi ha fatto una piccola sala per caffè e narghilè all’interno della tenda.
E Za’atari è diventato un luogo di vita, di lenta rinascita. Come per ‘Abdallah, che si è sposato con la sua vicina di tenda. Come per il piccolo Ghassan, che è venuto al mondo agli inizi di dicembre, in uno degli ospedali del campo. Come per la bella Maram che sorride felice mentre mostra i suoi quaderni di scuola.
Nonostante tutto, a Za’atari la vita continua. E forse tutti coloro che camminano all’interno dei confini del campo, lungo la distesa deserta di terra gialla, non ancora allestita con tende, sono alla ricerca di uno spazio infinito a cui volgere lo sguardo, per colmare almeno psicologicamente quel desiderio di libertà e di spazio di cui sono stati privati. Forse sperano di riuscire a scorgere la Siria sulla linea dell’orizzonte, quella terra che sono stati costretti ad abbandonare e alla quale bramano di poter presto far ritorno. Con la consapevolezza, però, che niente sarà più come prima.