Una visita alla scuola di bambù del villaggio beduino di Abu Hindi in Cisgiordania, appena fuori Gerusalemme Est. Vi studiano più di cento bambini: 77 maschi e 45 femmine. Un progetto sostenuto dalla cooperazione italiana e fortemente voluto dalla comunità locale, che lotta per affermare il diritto allo studio.
(Betlemme) – Raggiungere il piccolo villaggio beduino di Wadi Abu Hindi, ad est di Gerusalemme, non è affare da poco. Sulla strada principale che collega Betlemme e Ramallah, appena dopo il Container check-point (posto di blocco israeliano che divide il Nord e il Sud della Cisgiordania), si incontra a destra una strada sterrata che dà accesso a una discarica di rifiuti. Quindici minuti più tardi, superati quintali di immondizia e terra, si spunta nella vallata desertica che ospita i 400 beduini di Abu Hindi, una delle circa 40 comunità jahalin dei Territori Palestinesi. Una comunità stretta tra le colline occupate dalle colonie israeliane di Ma’ale Adumim e Qedar.
All’ingresso del villaggio – una ventina di baracche di ferro e legno che punteggiano la valle di terra rossa – sorge la scuola di bambù dove studiano più di cento bambini: 77 maschi e 45 femmine. Nelle nove classi disposte intorno al cortile si inizia alle 7.45, si canta, si prega, si fa ginnastica e poi lezione fino alle 13.
A rendere speciale la comunità di Abu Hindi è proprio questa scuola di bambù. Un progetto che va al di là della mera architettura alternativa e che è espressione della ferma volontà del villaggio di godere a pieno del diritto allo studio. Negli ultimi due mesi la scuola è stata rinnovata: al posto del vecchio magazzino sono state costruite due classi in più, la numero dieci e la undici, muretti a secco nel cortile e un parco giochi con scivoli nuovi di zecca.
«Il progetto della scuola di bambù – ci spiega Alberto, che ne è il responsabile – è partito dall’ong italiana Vento di Terra, in collaborazione con la cooperativa italiana ARCò-Architettura e Cooperazione Per Abu Hindi. Abbiamo istituito cinque progetti diversi nel corso degli ultimi due anni. I finanziamenti iniziali sono giunti dalla Conferenza episcopale italiana (Cei), dal Comune di Pavia e dall’architetto Mario Cucinella: 40 mila euro con i quali abbiamo costruito interamente l’istituto con materiali del tutto naturali. I lavori successivi – come il rinnovamento degli uffici, l’installazione del sistema fotovoltaico e le nuove aule – sono stati finanziati dal Comune spagnolo di Gijòn, dall’Ocha (l’Ufficio dell’Onu per il coordinamento delle questioni umanitarie), dalla Cooperazione belga e dall’Unicef».
La scuola di bambù risale all’ottobre del 2010; a gennaio di quest’anno sono state completate le due nuove aule. Alberto prosegue: «Le pareti sono costruite con mattoni di argilla e paglia tra una struttura di legno chiusa con lamiera all’interno. All’esterno abbiamo poi ricoperto tutto con il bambù, proveniente dalla città di Gerico. Il tetto, inclinato per permettere la circolazione dell’aria, è stato isolato con dei pannelli. In questo modo l’edificio resta caldo d’inverno e fresco d’estate». Non solo: il tocco in più sono i pannelli solari, un impianto fotovoltaico che permette alla scuola di avere l’elettricità.
«Hanno lavorato all’allargamento della scuola nove operai – soggiunge Alberto –. Tutti della comunità di Abu Hindi, un nucleo che vive di pastorizia, ma che vede anche molti dei uomini lavorare nel settore dell’edilizia». L’Amministrazione israeliana che gestisce l’Area C dei Territori Palestinesi Occupati non ha autorizzato i lavori di allargamento. Al villaggio non è permesso costruire alcuna nuova struttura né allargare il perimetro di quelle esistenti.
Ma i bambini sono tanti e c’è bisogno di più classi per coprire anche gli ultimi due anni delle elementari: «Per questo abbiamo costruito le nuove due classi, mantenendoci dentro il perimetro stabilito. Le aule hanno preso il posto di un magazzino già esistente».
«Nella scuola di Abu Hindi abbiamo quindici insegnanti – ci spiega il direttore Daud al-Asmar –. È stata riconosciuta dall’Autorità Nazionale Palestinese, che paga gli stipendi. Insegniamo matematica, inglese, scienze, arabo, storia e religione. In genere i maschietti si fermano alle scuole medie, le ragazze invece proseguono fino alla maturità e a volte fino all’università». Hanno ottenuto risultati che potrebbero apparire incredibili se si pensa che gli alunni studiano in case di ferro, senza elettricità e spesso senza una scrivania né una sedia: «Siamo fieri dei nostri studenti – continua al-Asmar –. Una di loro si è laureata con il massimo dei voti in medicina e ora insegna all’università».
Fino a quindici anni fa, a Wadi Abu Hindi non c’erano scuole, né classi, né professori. C’erano solo tanti bambini, costretti a percorrere a piedi o a dorso d’asino parecchi chilometri per raggiungere la scuola del villaggio più vicino, El Azariya. Un viaggio che spesso nei mesi invernali era reso impossibile dalla pioggia, dai fiumi d’acqua e immondizia provenienti dalla discarica, dal freddo pungente.
Ad avviare il primo embrione di scuola è stato il mukhtar, il capo tribù, una sorta di sindaco eletto dal resto dei cittadini. Mohammad Hammadin, chiamato da tutti Abu Yousef, ha costruito con le sue mani la prima scuola di Wadi Abu Hindi. Realizzata in lamiera, fu subito demolita dalle autorità israeliane.
Dopo la prima, nel 1997 è giunta la seconda demolizione. I beduini di Abu Hindi non si sono fatti scoraggiare, hanno ricostruito la scuola e contemporaneamente presentato alla Corte Suprema israeliana una petizione che la salvaguardasse da future distruzioni. Attraverso la consulenza di avvocati israeliani, la comunità ha raggiunto l’obiettivo: la Corte ha vietato all’esercito israeliano di distruggere nuovamente la scuola, unico strumento di istruzione per la comunità.
Ma il diritto all’educazione non è l’unico ad essere precluso a Wadi Abu Hindi. In piena Area C, circondato da colonie, tra cui l’imponente Ma’ale Adumim, il villaggio è completamente privo di servizi essenziali: le autorità israeliane che esercitano il pieno controllo non assicurano né elettricità, né acqua corrente. Una tubatura porta l’acqua al villaggio e riempie i serbatoi delle famiglie, ma in modo insufficiente e a un costo a volte proibitivo: pur trattandosi di acqua che scorre sotto i piedi delle comunità beduine, Israele e la compagnia privata Mekarot la rivendono a costi esorbitanti ai villaggi palestinesi. La stessa acqua che i coloni sparsi negli insediamenti israeliani in Cisgiordania ricevono in abbondanza e pagano a tariffe agevolate.
«La nostra comunità vive sotto la costante minaccia di un trasferimento forzato», ci spiega il mukhtar Abu Yousef. Non sarebbe la prima volta: prima di spostarsi nella vallata, il villaggio di Wadi Abu Hindi sorgeva sulla collina accanto. Oggi al suo posto c’è una colonia israeliana, Qedar. «Ci hanno cacciato per far posto ai coloni e ora vorrebbero costringerci a spostarci di nuovo – prosegue Abu Yousef –. L’obiettivo è rinchiuderci nelle città. Non abbiamo alcuna intenzione di farlo: perderemmo le nostre tradizioni, il nostro stile di vita».
L’amore per questa vita semplice e a contatto diretto con la natura lo si coglie con forza nei beduini di Abu Hindi. Vivono in condizioni che un europeo definirebbe quantomeno precarie e inospitali, ma con grandi sorrisi ti aprono la loro casa, ti offrono tè alla menta e caffè arabo. È la loro vita, la loro tradizione.