Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Troppa luce abbaglia

Giuseppe Caffulli
4 novembre 2012
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Che Israele sia un laboratorio, nel senso più ampio del termine (non solo un laboratorio tecnologico, ma anche sociale e politico), non è una novità. Ora un libro (edito da Mondadori e intitolato appunto Laboratorio Israele. Storia del miracolo economico israeliano), tenta di fotografare il fenomeno e di rintracciarne le radici. Ma il tono avrebbe potuto essere meno apologetico.


Una telecamera a forma di pillola, da ingerire a scopi diagnostici e chirurgici; un’apparecchiatura a ultrasuoni impiegata per la cura e l’ablazione dei tumori; un apparecchio diagnostico per monitorare i disturbi del sonno. E ancora: un sistema per prevenire le morti in culla e bende emostatiche utilizzate in guerra, ma utilissime anche per salvare vite in tempo di pace. Poi chip, microchip e innumerevoli congegni elettronici e software. E per finire, una penna elettronica in grado di tradurre testi stranieri, patate adatte a crescere in climi aridi, sistemi computerizzati per l’itticoltura, e (non lo diresti mai) il cannone sparaneve indispensabile per innevare le piste sciistiche di mezzo mondo.

Sono solo alcune tra la miriade di invenzioni e brevetti che, negli ultimi anni, l’industria israeliana ha sfornato. Una galleria che fa bella mostra di sé in un sito internet dedicato al tema.

Che Israele sia un laboratorio, nel senso più ampio del termine (non solo un laboratorio tecnologico, ma anche sociale e politico), non è una novità. Ora un libro (edito da Mondadori e intitolato appunto Laboratorio Israele. Storia del miracolo economico israeliano), tenta di fotografare il fenomeno e di rintracciarne le radici. Da dove nasce tanta creatività ed eccellenza? Quali sono le molle capaci di dare a un popolo circondato da nemici una tale vivacità economica e intellettuale? Basta la vulgata secondo la quale gli ebrei sono mediamente più intelligenti per giustificare i successi? Scritto a quatto mani da Dan Senor e Saul Singer, giornalisti rispettivamente del Wall Street Journal e del Jerusalem Post, il libro si fonda su alcuni indiscutibili dati di fatto: Israele è una nazione di 7 milioni di abitanti, ha un’economia che è cresciuta di 50 volte in sessant’anni ed è diventata la capitale mondiale delle nuove tecnologie. Una chance in più proprio quando la crisi planetaria inizia a mordere anche in quelle terre.

Che gli israeliani abbiano saputo intraprendere strade alternative in agricoltura e nel campo delle scienza applicate, è sicuramente un vanto che va celebrato. E a questo il libro non si sottrae affatto, presentando una galleria di storie di successo che dimostrano come a Israele siano debitori anche molti Paesi d’Occidente.

Tuttavia il tono complessivamente apologetico lascia perplessi. Il fatto che una parte considerevole dell’innovazione derivi dalla ricerca in campo bellico, sembra non rappresentare un problema (ma comunque una risorsa). Che poi questo sguardo in avanti non coinvolga sostanzialmente i cittadini non ebrei, non fa problema (la ragione per cui i laureati arabi non entrano nel circolo produttivo? Non fanno il servizio militare e sono tagliati fuori dalle rete di relazioni che la leva crea tra i commilitoni. Cfr p. 225).

Su alcuni argomenti c’è poi un vero e proprio difetto di prospettiva: «Israele – scrivono gli autori – è l’unico Paese che cerca di aumentare l’afflusso di immigrati» (p. 137). Vero: ma solo degli immigrati di religione ebraica, siano essi etiopi, russi, iracheni o kazaki.

Insomma: oltre a dar conto della grande spinta in avanti che la società israeliana ha conosciuto negli ultimi decenni, dando merito alla capacità imprenditoriale e innovativa di larga parte della popolazione, il libro avrebbe potuto risultare più utile alla conoscenza del Paese se avesse saputo (o voluto) problematizzare qualche aspetto della vita politica ed economica. A mo’ d’esempio: la questione degli haredim, il rapporto con la componente araba, il diritto (o meno) a godere delle risorse naturali.

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