La mia prima guerra vista da vicino
In questa lettera Miriam Mezzera, da Gerusalemme, esprime i propri sentimenti davanti alla sua prima guerra vista da vicino. Condividiamo il testo con i lettori di Terrasanta.net.
Ieri pomeriggio, prima che scattasse il cessate il fuoco tra Israele e milizie palestinesi della Striscia di Gaza, abbiamo ricevuto questa lettera di Miriam Mezzera, che da Gerusalemme esprime i propri sentimenti davanti alla sua prima guerra vista da vicino. Condividiamo il testo con gli altri lettori di Terrasanta.net
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Le notizie che arrivano sono una fucilata continua. Una violenza cieca, che sembra non fermarsi. Foto scioccanti: un bambino piange terrorizzato accasciato contro un muro, il fratellino in braccio. La didascalia dice che ha appena saputo della morte dei genitori. Devastazioni, vite distrutte e orrore. Questa mattina Gaza City si è svegliata dalla «notte di bombardamenti più pesanti dall’inizio dell’offensiva israeliana», dicono le agenzie di stampa. La tregua si allontana e la tristezza si fa più cupa.
Eppure c’è una cosa che mi rende forse anche più triste delle notizie che arrivano: l’indifferenza. Il ricevere telefonate che dicono «ma sì, tutto andrà meglio», scivolando via veloci sul cosa e sul come. Come se fosse tutto un brutto sogno, tra poco ci sveglieremo e non sarà successo niente, alla televisione finalmente la smetteranno di mostrarci gli spettacoli sconvenienti di corpi dilaniati e torneremo a scherzare sul Gabibbo. Siamo tutti improvvisamente analisti, pronti a puntare il dito su questo e su quello, corazzandoci dietro le nostre convinzioni politiche e le nostre simpatie per una parte o per l’altra, e non ci accorgiamo che in questo modo trasformiamo anche noi le vite umane in semplici pedine del gioco. Abituati alla brutalità dai servizi televisivi che appiattiscono tutto e alla fine ci permettono, premendo un pulsante, di tornare alla nostra cena e di cambiare argomento. Sballottati da un’informazione spesso distorta anch’essa da interessi più potenti. Che non vede vite umane sotto le macerie, persone con un nome e un volto, con una storia, dei genitori, dei figli, delle speranze, delle preoccupazioni. Ma che nello stesso tempo si accanisce su di esse, le utilizza per dimostrare le sue posizioni.
Mi metto anch’io dentro questo «noi», perché è la prima volta che vivo una guerra da così vicino, e probabilmente io stessa prima di adesso vedevo le cose che succedevano – anche qui in Terra Santa, dove comunque avevo già vissuto – con quella logica viziata. Viziata da un bisogno di distaccarsi, di incasellare ogni evento, per non restare troppo coinvolti in una causa che alla fine non è la nostra.
Ora, nel vedere da vicino la carneficina che sta avvenendo a poche decine di chilometri da qui, non posso fare a meno di vedere prima di tutto la sofferenza delle persone. Sentirla. Stare male. Leggere i nomi delle vittime uno per uno, anche se non le conosco. Mettermi nei loro panni, nei panni di chi stanotte si è sentito crollare addosso la casa, si è visto morire i figli davanti agli occhi. Di chi vive nel terrore continuo. A Gaza o nel sud di Israele, non importa. Poi, certo, vengono tutte le considerazioni politiche del caso. Ma vengono solo dopo.