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Giorni di guerra, una testimonianza dalla comunità cattolica di Be’er Sheva

Terrasanta.net
19 novembre 2012
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Anche Be’er Sheva, il capoluogo del deserto del Negev, come altri centri israeliani non lontani dalla Striscia di Gaza, è costantemente sotto il tiro dei razzi palestinesi. Anche qui, sia pure forse in modo meno tragico che a Gaza, la popolazione è ostaggio di scelte militari altrui, foriere di nuovo odio e desolazione. La testimonianza del parroco italiano, don Gioele Salvaterra.


(Milano/g.s.) – Anche Be’er Sheva, il capoluogo del deserto del Negev, come altri centri israeliani non lontani dalla Striscia di Gaza, è costantemente sotto il tiro dei razzi scagliati dalle fazioni armate palestinesi. Anche i suoi oltre 200 mila abitanti, sia pure forse in modo meno tragico dei cittadini di Gaza, sono ostaggio di scelte militari altrui che non fanno che accumulare odio su odio e distruzione su distruzione.

Don Gioele Salvaterra, trentaduenne prete fidei donum della diocesi di Bolzano-Bressanone, esercita proprio qui, da tre anni, il suo ministero di responsabile della parrocchia di Sant’Abramo. La sua piccola comunità, sotto la giurisdizione del patriarcato latino di Gerusalemme, fa parte delle entità coordinate dal vicariato per i cattolici di lingua ebraica. Don Gioele ci spiega che «è composta da circa un centinaio di persone, sia famiglie che singoli, di una varietà di origini. Ci sono fedeli locali, che sono per lo più persone straniere coniugate con ebrei e poi immigrate con loro in Israele; arabi cristiani della Galilea che si sono trasferiti qui al sud per ragioni professionali; molti lavoratori stranieri, soprattutto dall’India; studenti universitari, soprattutto dall’America, iscritti all’Università Ben Gurion. La domenica normalmente vengono a messa dai 30 ai 40 fedeli. La nostra casa, al cui interno si trova la cappella, si trova nelle vicinanze dell’ospedale e dell’università».

Abbiamo chiesto al sacerdote altoatesino di raccontarci il clima di questi giorni. Bastano poche parole: «Anche la nostra comunità cristiana risente di questi giorni di violenza. La gente ha paura ad uscire di casa, ma anche questa domenica abbiamo celebrato la Santa Messa, con un gruppo di circa 15 persone. Per poter celebrare con tranquillità abbiamo preferito non rimanere in cappella, ma trasferirci in una zona della casa più riparata. Gli adulti, ma soprattutto i bambini, sentono il bisogno di sfogare le loro paure e preoccupazioni, di raccontare quello che hanno vissuto: incontrarsi per la Messa è anche un’ottima occasione per potersi sentire in comunione con gli altri fedeli della comunità. Il compito mio e di tutta la comunità cristiana a Be’er Sheva è proprio quello di essere aperti gli uni per gli altri, di offire un orecchio che ascolta e di pregare insieme per la pace».

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