Davanti alla nuova crisi di Gaza proviamo a ricapitolare le idee, lasciandoci guidare da alcune voci che questa realtà la conoscono molto a fondo. E proviamo a farci due domande: che cosa è uno spettacolo già visto e che cosa è nuovo in questa crisi? Alcune risposte possibili tratte della stampa israeliana e libanese di questi giorni.
Non è una grande consolazione per tanti di noi che seguono con continuità il Medio Oriente aver detto per tempo che la tempesta si stava avvicinando. E non è consolante nemmeno vedere la solita schiera di opinionisti che adesso hanno indossato l’elmetto e sono impegnatissimi a fare il tifo, come se fossimo allo stadio e non nel mezzo di una guerra che semina sempre dolore e distruzione.
Proviamo allora a ricapitolare le idee lasciandoci guidare da alcune voci che questa realtà la conoscono molto a fondo. E proviamo a farci due domande: che cosa è uno spettacolo già visto e che cosa è nuovo in questa crisi? Alla prima domanda ha risposto molto chiaramente Nahum Barnea, uno dei più noti editorialisti israeliani. Nell’articolo che linkiamo sotto, uscito su Yediot Ahronot, Barnea spiega che – come al solito – in guerra è facile entrare ma molto difficile poi uscire. È l’esperienza di sempre che in queste ore sta sperimentando anche Netanyahu. Barnea – che scrive da Be’er Sheva, una delle città israeliane più colpite dai razzi palestinesi in questi giorni – utilizza un’immagine molto forte. Si dice ammirato da Iron Dome, il sistema di difesa antimissile che «non spara a tutti i missili, ma sa distinguere quelli realmente pericolosi». Questo – aggiunge in maniera pungente Nahum Barnea – è quanto Netanyahu non ha saputo fare. Il già visto – insomma – è il problema delle campagne militari lanciate per «ristabilire la deterrenza», che è il più vago degli obiettivi, legato più a un’immagine davanti all’opinione pubblica che a uno scopo sostanziale. Così adesso Netanyahu non sa come uscire da questa situazione senza dare l’impressione che abbia comunque vinto Hamas.
Anche perché c’è pure la seconda parte della domanda: in questa guerra – da parte araba – ci sono infatti una serie di novità. Tre le elenca Rami Khoury nell’altro articolo a cui rimandiamo, pubblicato sul quotidiano libanese The Daily Star: 1) la tecnologia migliore delle armi messe in campo questa volta dalle milizie palestinesi è notevolmente migliore; 2) l’emergere – a Gaza ma non solo – di gruppi islamisti più radicali; 3) l’impatto sulla crisi della presenza di nuovi governi come quello egiziano. A questi tre mi permetto di aggiungerne io un quarto: la situazione in Cisgiordania. Tutti in queste ore stanno concentrando l’attenzione solo su Gaza e Israele, ma nelle città palestinesi cisgiordane la situazione è incandescente, ieri ci sono stati due morti oggi dimostrazioni ovunque. L’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas (Abu Mazen), già da tempo agonizzante, sta venendo letteralmente spazzata via. Domani Hillary Clinton andrà a Ramallah ma ormai rischia di essere troppo tardi: abbandonato da due anni dagli Stati Uniti ormai Abu Mazen appare un treno perso.
Tutti questi elementi ci portano a una conclusione: arriverà una tregua, ma l’errore più grave che può fare la diplomazia occidentale è pensare che sia finita lì. O si comprende che questa è l’ultima opportunità per rilanciare l’iniziativa politica in Medio Oriente facendo i conti con la nuova situazione, oppure quello di questi giorni non è altro che l’aperitivo di un conflitto a tutto campo che è ormai dietro l’angolo.
Rilanciare la politica, dunque. Che vuole poi dire lasciarsi interpellare davvero dal volto umano del conflitto. Quello che questa mattina – sempre su Yediot Ahronot – ha raccontato con parole ancora una volta molto forti Izzeldin Abuelaish, il medico di Gaza che durante la guerra del 2009 si vide uccidere tre figlie da un missile israeliano; un uomo che ciò nonostante ha saputo dire «Io non odierò» (come recita il titolo del suo libro). «Ciascuno di noi – scrive – ha il dovere di pensare in maniera indipendente e di rifiutare la logica di chi pensa e parla di “noi e loro”: i nostri bambini e i loro bambini, le nostre vittime e le loro vittime. Dobbiamo invece svegliarci e ricordarci che siamo legati gli uni agli altri e lo saremo sempre. Siamo parte gli uni degli altri e questi sono i nostri bambini, il nostro problema, la nostra guerra, la nostra tragedia, le nostre vittime il nostro futuro e la nostra pace».
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