Per interpretare le rivolte arabe del 2011 occorre considerare anche il punto di vista di Israele, Palestina, Turchia, Iran, Paesi del Golfo così da capire come gli sconvolgimenti della sponda sud del Mediterraneo abbiano rovesciato equilibri di potere regionali consolidati da decenni. È questo uno dei fili conduttori del volume "La Primavera araba. Origini ed effetti delle rivolte che stanno cambiando il Medio Oriente".
Non ci sono solo i nodi da sciogliere in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria, Bahrein, ovvero i Paesi protagonisti delle rivolte del 2011. Occorre considerare anche il punto di vista di Israele, Palestina, Turchia, Iran, Paesi del Golfo per capire come gli sconvolgimenti della sponda sud del Mediterraneo abbiano rovesciato equilibri di potere regionali consolidati da decenni. È questo uno dei fili conduttori di La Primavera araba. Origini ed effetti delle rivolte che stanno cambiando il Medio Oriente, a cura di Michela Mercuri e Stefano Maria Torelli.
Frutto dei contributi di esperti dei vari Paesi, da Marina Calculli per la Siria a Riccardo Redaelli e Paola Rivetti per l’Iran, il volume analizza nella prima parte la genesi e le caratteristiche delle rivolte nei vari Paesi, nella seconda le loro conseguenze sulle Nazioni limitrofe. Con uno sguardo, nell’introduzione di Vittorio Emanuele Parsi, sul significato per l’Occidente di quanto accaduto sulla sponda sud del Mare Nostrum. Poiché, argomenta il politologo, è evidente che l’intervento militare della Nato in Libia rappresenta proprio il riconoscimento dell’esistenza di un comune spazio politico mediterraneo e del rifiuto di «voltare la testa dall’altra parte». E questo, argomenta Anna Longhini nel saggio dedicato ai tentennamenti dell’Ue, nonostante il sostanziale fallimento di integrazione nord-sud lanciato con il Progetto di Barcellona nel 1995 ed il debole tentativo di rivitalizzarlo con l’Unione per il Mediterraneo nel 2008.
L’antologia ricostruisce con saggi di notevole spessore come le richieste di libertà, dignità, uguaglianza nelle opportunità economiche, fine della corruzione che sono state il motore delle rivolte non solo abbiano chiuso definitivamente l’epoca post-coloniale, ma abbiano aperto con l’ascesa dei partiti islamisti al potere una nuova éra che segna anche la sconfitta della stagione del terrorismo come strumento di lotta politica nel mondo arabo.
Quali saranno nei vari Paesi gli effetti della caduta dei dittatori? In Libia, argomenta la Mercuri, non è purtroppo da escludere una «somalizzazione» del Paese visto che le tre realtà territoriali della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan sono state tenute insieme in 42 anni «non dalle istituzioni e neppure dall’esercito ma dal potere personale di Gheddafi». In Tunisia, scrive Caterina Roggero, sono l’opinione pubblica e una società civile che non hanno più paura di esporsi a vigilare sulla costruzione democratica del Paese. In Egitto il braccio di ferro fra i Fratelli musulmani e le forze armate è solo all’inizio, rimarca Torelli, e lo spazio che verrà dato alle donne, alle minoranze, alle istanze liberali e laiche nella Costituzione rappresenta il primo nodo da sciogliere dell’era post-Mubarak. Ma è soprattutto la crisi siriana a rappresentare un fattore di destabilizzazione dagli esiti imprevedibili: da una parte ha decretato il ridimensionamento del ruolo di leadership al quale la Turchia aspirava dopo un decennio di politica estera improntata alla profondità strategica e all’azzeramento dei problemi con i vicini. Dall’altra sembra aver causato il giro di vite della repressione in Iran e l’aumento dell’isolamento di Israele.
Così l’ipotetica classifica di «chi vince e chi perde» nelle Primavere arabe, al termine dei saggi viene piuttosto soppiantata in chi legge dagli interrogativi su chi ha capito e chi non ancora ha capito. Perché non c’è dubbio che il sacrificio di Mohammed Bouazizi, lo Jan Palach del mondo arabo che il 17 dicembre 2010 ha dato il via a un cambiamento epocale per l’intera regione, ha sconvolto i piani di chi contava sullo status quo per continuare a non affrontare i problemi interni, e a rimandare le risposte ai quesiti su come risolvere la questione arabo-israeliana e su quale sia la via d’uscita dalla Rivoluzione islamica.