Forse per lo Stato di Israele è giunto il tempo di riconsiderare i criteri in base ai quali nega la cittadinanza agli ebrei che professano un credo diverso da quello ebraico. È la riflessione che mons. David M. Jaeger propone nella rubrica che firma nel numero di settembre-ottobre 2012 del bimestrale Terrasanta. Ve ne anticipiamo i contenuti.
Forse per lo Stato di Israele è giunto il tempo di riconsiderare i criteri in base ai quali nega la cittadinanza agli ebrei che professano un credo diverso da quello ebraico. È la riflessione che mons. David M. Jaeger propone nella sua consueta rubrica nel numero di settembre-ottobre 2012 del bimestrale Terrasanta. Un’anticipazione.
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È passato mezzo secolo da quando la Corte Suprema di Israele decise di non riconoscere come membro del popolo ebraico chi, pur essendolo, aderiva a una religione diversa dall’ebraismo. Si trattava di un giudizio in cassazione sulla richiesta di un ebreo, Oswald Rufeisen (1922-1998), convertitosi al cattolicesimo ed entrato nell’Ordine dei carmelitani scalzi, con il nome di fra Daniele, ordinato poi sacerdote, al fine essere riconosciuto dallo Stato come appartenente al popolo ebraico.
In Israele, allora come oggi, tutti i residenti vengono classificati d’ufficio sia per «nazione» sia per «religione». Un appartenente al popolo arabo, per esempio, può essere registrato come appartenente alla religione islamica oppure alla religione cristiana. Fra Daniele, in effetti, rivendicava analogo diritto per gli ebrei: quello cioè di poter esercitare la libertà di coscienza in materia di scelta e di cambio di religione (che, in Israele, si può comunque sempre fare, liberamente), senza perciò essere simbolicamente estromesso dal proprio popolo. La Corte respinse la sua domanda, sentenziando che non può essere riconosciuto ebreo, anche se di fatto lo è, l’ebreo che aderisce ad una religione diversa dall’ebraismo. Un ebreo, perché il registro civile lo riconosca tale, disse la Corte, può essere ateo ma non cristiano.
Il motivo della decisione non era teologico – anzi, secondo la legge religiosa, l’ebreo «apostata» è pur sempre ebreo – ma «convenzionale». In altre parole, il significato delle parole è quello che emerge dall’uso corrente, quasi fosse una «convenzione» tra coloro che parlano la stessa lingua, in funzione della realtà da essi osservata. E la gente in generale, dissero i supremi giudici, non applica la qualifica di «ebreo» al convertito al cristianesimo. Infatti la società israeliana non conosceva allora ebrei cristiani che rivendicassero comunque, pubblicamente, l’appartenenza al proprio popolo. E non poteva bastare un caso singolo per far riconoscere una realtà così inconsueta. Tutte le Chiese e le comunità cristiane in Israele, con una dichiarazione comune senza precedenti, risposero al verdetto così: «Noi invece riteniamo che l’ebreo convertitosi al cristianesimo è sempre membro del suo Popolo, come lo è stato sin dalla nascita». Evidente.
Nel 1980 fui chiamato a deporre davanti alla Commissione affari costituzionali della Knesset, il parlamento israeliano, in relazione ad un disegno di legge costituzionale a tutela dei diritti umani, in rappresentanza del Consiglio cristiano unito in Israele (eravamo contrari a quel progetto legislativo, che ritenevamo inadeguato, ed infatti non fu poi approvato). Ad un certo momento mi capitò di riferirmi agli ebrei cristiani martirizzati accanto agli altri membri del proprio popolo (ebrei ortodossi, liberali, agnostici, atei) nei campi di sterminio nazisti, sigillando così la solidarietà di tutti gli appartenenti al popolo ebraico, indipendentemente dalla propria fede religiosa o convinzione filosofica. Il Presidente della Commissione, un esponente della destra dura, ma uomo onesto, fino a quel momento piuttosto polemico, si mostrò sorpreso, ma ammise subito che l’argomento avrebbe meritato certamente di essere approfondito. Da allora infatti è avvenuta la canonizzazione della martire Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, che ha evidenziato tale verità storica, mettendola davanti agli occhi di tutti.
Certo anche così, cambiare il «senso convenzionale» delle parole non è impresa facile, ma neppure impossibile. Nel 1962 la Suprema Corte credeva di trovarsi di fronte a una «singolarità». Non è così. E nella misura in cui l’opinione pubblica, e quindi le istituzioni, se ne renderanno conto, la sospirata evoluzione avverrà. In onore di fra Daniele.
(Alla vita di fra Daniele si ispira anche il romanzo di Ludmilla Ulitskaya, Daniel Stein. Traduttore, Bompiani, 2010 – ndr)