L'ultimo romanzo di Antonia Arslan, scrittrice padovana di origine armena che ha al suo attivo bestseller come La masseria delle allodole, è un libro duro. Ci immette direttamente in quella dimensione di tragedia che segna la vicenda del popolo armeno. La storia è quella di cinque sopravvissuti, in maniera miracolosa, allo sterminio di inizi Novecento e di un antico e preziosissimo libro miniato (un vero tesoro della fede e della cultura armena) che essi riescono a mettere in salvo.
Se si cercano poesia o vibrazioni sentimentali nella cifra stilistica che Antonia Arslan ha scelto per il suo nuovo romanzo Il libro di Mush si resta delusi. La nuova fatica della scrittrice padovana di origine armena (che ha al suo attivo bestseller come La masseria delle allodole, tradotto in tutto il mondo e portato sullo schermo dai fratelli Taviani nel 2007) è un libro duro, fatto della roccia delle tante croci di pietra che costellano le montagne armene, verrebbe da dire. Ci immette direttamente, fin dalle prime battute, in quella dimensione di tragedia che segna la vicenda del popolo armeno, trucidato dai turchi negli anni Dieci del secolo scorso e costretto a una dolorosa diaspora in ogni parte del mondo.
La storia è quella di cinque personaggi sopravvissuti, in maniera miracolosa, alle violenze che hanno cancellato le loro famiglie di appartenenza e i loro villaggi. Come alberi sradicati dalla propria terra, Anoush, Kohar, Eleni, Hovsep e Makarios si mettono in viaggio per salvarsi. Ma il loro andare è privo di senso, estranei come sono ormai a loro stessi e alla loro stessa storia. Giunti in un antico monastero, scoprono che i monaci, a prezzo della vita, hanno messo in salvo un antico e preziosissimo libro miniato, che è un tesoro della fede e della cultura armena.
A quel punto il salvataggio del volume diventa la metafora stessa della possibilità di salvezza sia personale che del popolo armeno; diventa la ragione di vita dei fuggiaschi, una sorta di talismano contro tutti i mali e le sventure. Per far giungere la preziosa reliquia nella capitale, sopportano ogni sorta di tribolazione e mettono a repentaglio la loro stessa vita. Dei cinque protagonisti (ma sul percorso a loro si accompagnano altre figure salvifiche, come il vecchio Zacharias, a cui i turchi hanno mozzato la lingua, e che li accompagnerà nel loro peregrinare) alla fine solo Anoush, insieme al figlioletto Hovsep, raggiunge la piana dell’Ararat. Porta con sé solo metà del prezioso libro. Per poter trasportare il pesante volume, i fuggiaschi l’hanno infatti diviso in due. E così una seconda parte giace nella tomba di Kohar, sotto un melograno. Solo anni dopo sarà possibile recuperarla e riunirla a quella portata in salvo dalla coraggiosa Anoush.
Il libro della Arslan ha il ritmo di un canto epico e il tono di una lamentazione biblica. Ci aiuta a non dimenticare ciò che è stato. E a non dormire sonni tranquilli di fronte alla possibilità che certe tragedie (in nome della religione, della politica, della razza) possano nuovamente verificarsi. Ma ci insegna anche che l’amore, la passione, il sacrificio, alla fine vincono la morte: basta infatti il gesto eroico di una debole donna delle montagne di Mush a piantare un rigoglioso seme di speranza.